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RUBRICA | Reflexioni

Più falso del vero

Inauguriamo questa nuova rubrica sulla fotografia con un tema già usato, sentito, ampiamente discusso. Il dibattito sulla presunta ‘realtà’ ed ‘obbiettività’ della fotografia è, infatti, vecchio quanto il mezzo stesso.
Perché, quindi, parlarne ancora?
Semplicemente perché ancora serve.

Ed ecco che Officine fotografiche ci propone, questo mese, la mostra Più falso del vero, a cura di Alessandra Mauro, organizzata da Soluzioni Arte in collaborazione con Contrasto. Lo scopo è la riflessione sulla «sottile linea di confine tra la verità e l'illusione».
La mostra, a mio avviso, può considerarsi la 'messa in atto' della ormai decennale riflessione teorica sulla natura dell'immagine fotografica. Nello specifico, essa si traduce nell'interrogativo: la fotografia cos'è? Indice, icona, simbolo? Ed è forse a partire da questa domanda che si può iniziare a ragionare sul rapporto tra vero e falso in fotografia.


Beijing, 2008 © Daniele Dainelli/Contrasto


Seguendo le teorie semiotiche di  C. S. Peirce scopriamo che, se il segno indicale è un segno naturale che non necessita di un codice che lo traduca (proprio perché il rapporto segno-oggetto si basa su un principio di continuità che crea una relazione esistenziale tra i due: non potrebbe esserci segno senza l’esistenza dell’oggetto), l’icona si basa su un rapporto di somiglianza tra segno e referente. Quando le due categorie convivono nell’ambito di un medesimo segno, si ha il cosiddetto 'indice iconico'. E indice iconico può considerarsi la fotografia: una traccia/impronta che, nel momento in cui stabilisce una somiglianza con il referente, si fa anche icona.
Ma la foto è, dapprima, indice: un indice che solo in seguito può diventare somigliante (icona) e acquisire significato (simbolo). Ed è qui che il confine tra realtà e illusione di realtà si fa irrimediabilmente sottile.


Sosia di Mao - Pechino, 2009 © Tommaso Bonaventura/Contrasto


Ecco, così, che il paesaggio bucolico nelle fotografie di Daniele Dainelli altro non è che un paesaggio bucolico incollato su un poster affisso sui muri di Pechino; le figure di Cicconi Massi, figure nere che emergono dal bianco, sono tracce di persone estraniate dai luoghi e dal tempo. Ancora i luoghi sono il soggetto di Massimo Siragusa che, attraverso l'uso di colori chiari ed evanescenti, ci racconta una Roma quasi metafisica. Bonaventura gioca, invece, con i sosia di Mao, proponendo ritratti di 'attori' cinesi specializzati nell'impersonare il Grande Timoniere. Cerio, con due scatti del suo lavoro Sintetico Urbano, mostra invece come il kitsch e l'artificialità programmata di alcuni luoghi del contemporaneo sfocino in uno strano paradosso di 'vero-verosimile', per concludere con Turetta e i suoi set cinematografici.


La piazza - dalla serie 'Luoghi dell'Infinito' © Massimo Siragusa/Contrasto

Ecco quindi che la fotografia, non più pensabile come sterile mezzo di riproduzione del reale, si mostra come linguaggio e, come tutti i linguaggi si rivela 'manipolabile', documento da affrontare e interpretare sempre con la coscienza critica del dubbio. Ogni passo che porta verso la creazione di una fotografia presuppone, del resto, una manipolazione. Inquadrare è manipolare, mettere a fuoco è manipolare, selezionare è manipolare, e cosi via. La parola manipolare ha, infatti, un suo significato  neutro di ‘operare con le mani’ e solo di recente gli si è  attribuito un  carattere negativo.



Outlet Valmontone © Stefano Cerio

La mostra ha il merito di ragionare, con interventi di qualità, su uno dei temi portanti della comunicazione visuale, laddove le immagini proposte giocano consapevolmente ed esplicitamente sulla dualità vero-falso, ce lo spiegano, e i fotografi sono un po' dei maghi che sanno 'dov'è il trucco' e lo mostrano al pubblico. Lo spettatore/fruitore, così, è avvisato e prende parte al gioco.


Mare Adriatico, Senigallia. Dalla serie 'Cammino verso niente 2008' © Lorenzo Cicconi Massi/Contrasto

Ma la riflessione tematica che la mostra propone diventa importante soprattutto  se riusciamo ad allargare i contesti di riflessione.  Ovvero, quando le fotografie che abbiamo di fronte appartengono al cosiddetto genere di fotografia ‘oggettiva’ (nome che a questo punto, si capisce, diventa paradossale): quel genere  di fotografia che appartiene al mondo dell'informazione e della documentazione, in cui il rischio del fraintendimento e il confine vero/falso sono, se possibile, ancora più labili e ‘pericolosi’. Più labili perché più il concetto di icona è forte, più l'inganno è potenzialmente mascherato. Si tratta di quel tipo di immagini che, per dirla con Flusser, sottostà forzatamente a quel processo di 'manipolazione' dell'informazione detto 'comunicazione'.



Set del film Nuovo Mondo di E. Crialese © Angelo Turetta/ Contrasto


Considerare solo l’aspetto tecnico nella genesi dell’immagine, allora, finirebbe per tagliare fuori da essa il costituente ‘specificità culturale’ che pervade l’immagine ogni volta che se ne fa uso, uso che avviene sempre attraverso un canale che ne definisce il senso (nella rinomata asserzione di McLuhan ‘il medium è il messaggio’).
E se le immagini di questa mostra fanno il loro lavoro scatenando in modo esplicito dei dubbi, nostro compito di fruitori di immagini è di non lasciare tali dubbi rinchiusi nella sala espositiva, ma di portarli con noi e scatenarli di fronte ad ogni fotografia.

Valeria De Berardinis

 

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