Tempo fa mi capitò di leggere un divertentissimo e lucidissimo articolo di Binyavanga Wainaina, giornalista e scrittore keniano. La storia vuole che, un bel giorno, la rivista inglese Granta pubblicasse un intero numero sull'Africa pieno di tutti gli innumerevoli cliché e stereotipi sul ‘Continente nero’ (a detta di Wainaina una specie di Hit parade dei Cuori di tenebra del cazzo). Così il keniano decise di mettersi al pc e di mandare una mail al direttore della rivista, stendendo un sarcastico arrabbiato promemoria su Come Scrivere D'Africa. Ad esempio:
«Soggetti vietati: scene di vita quotidiana, amore tra africani, riferimenti a scrittori o intellettuali, cenni a bambini scolarizzati che non soffrano di framboesia, Ebola o abbiano subìto mutilazioni genitali. Nel libro adottate un tono di voce sommesso e ammiccante con il lettore e un tono triste, alla ‘era esattamente quello che mi aspettavo’».
Questa mail diventò poi un articolo pubblicato su Granta stessa, pubblicato poi in Italia da Internazionale.
Perché, in effetti, quando si parla d'Africa il giudizio-pregiudizio è sempre dietro l'angolo.
E, soprattutto, siamo stati abituati a sentir parlar d'Africa da non africani che non è una cosa brutta in assoluto, ma forse varrebbe la pena bilanciare le voci.
Una sorta di par condicio, insomma.
Arrivo al dunque: con questo preambolo intendo introdurre una mostra itinerante approdata a Roma nei locali di Officine Fotografiche: Africa: see you, see me.
Il titolo è già da programma: si tratta di una mostra che invita allo scambio, ad un ‘dialogo ad armi pari’ dove un folto gruppo di artisti africani guardano e raccontano il proprio continente o la loro diaspora e il loro contatto con le realtà in cui sono migrati insieme a fotografi non africani che, per tematiche e progettualità, rientrano nel tema dell'esposizione. C'è poi un’interessante sezione dedicata ai primi ritratti etnografici.
sx: Delphine Diallo; dx: Majida Khattari
La bellezza e il pregio di questo progetto non sono tanto le immagini in sé per sé, ma il senso che dalla mostra traspare. In questo progetto avviene una sorta di de-colonizzazione dell'immagine (termine perfetto usato dal curatore Awan Amkpa), specchio di una emancipazione sempre più desiderata e ambita. Se la fotografia africana è stata per lungo tempo dominata da criteri formali, stilistici e contenutistici appartenenti al mondo occidentale in una specie di colonialismo visivo, specchio del colonialismo economico-culturale, oggi i fotografi africani stanno cercando di trovare un loro modo specifico (fortemente eterogeneo, date le sfaccettature di un continente immenso), di mettere in immagine la propria realtà, di comunicare e comunicarsi.
sx: Hank Willis Thomas; dx: Patrizia Maimouna Guerresi
Non sarà un processo veloce né facile, c'è indubbiamente ancora molta strada da fare, ma questa mostra indica che il processo si è già avviato. E i buoni propositi ci sono tutti. Anche il fatto che la mostra subisca cambiamenti da esposizione a esposizione dimostra come la creatività, il rinnovamento, gli stimoli dell'arte e degli artisti africani siano in pieno fibrillare.
Che poi il fatto che questa possibilità di autorappresentarsi avvenga attraverso il mezzo fotografico è un enorme omaggio al ruolo della fotografia che, in fondo, oltre a documentare ‘ciò che è successo’ ha il compito di essere un vero e proprio mezzo di formazione, un linguaggio che sia specchio e germe del cambiamento che, crescendo e sviluppandosi, ampli la possibilità dell’autonomia culturale e, per suo mezzo, sociale, di un intero popolo.
Se saremo disposti ad ascoltare queste voci probabilmente riusciremo ad allontanarci un po' dagli stereotipi.
E l'articolo di Wainaina resterà solo un ricordo.
Valeria De Berardinis