Domanda | Innanzitutto, come ci si sente ad avere un’opera permanente nella collezione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna?
Paolo Canevari | Bisogna vedere se sarà permanente oppure no perché ci sono dei problemi di conservazione; ogni volta che si affronta il soggetto della permanenza in arte ci si scontra con le realtà dei musei e delle gallerie. L’opera in sé, permanente o no, può essere considerata come un tipo di visione. Questa qui era nata come opera effimera, nel senso che era stata realizzata per la mostra e poi, nel corso dell’esposizione, avevamo pensato di mantenerla. Il problema, adesso, è che ci sarà una ristrutturazione delle sale, per cui l’opera probabilmente andrà distrutta. Fa un po’ parte della mia filosofia il pensare che le opere non siano una traccia permanente, ma siano, appunto, una memoria. Chiaramente il rapporto con l’oggetto, con l’opera d’arte è sempre un rapporto ‘momentaneo’, non è mai un rapporto fisico che dura nel tempo, per cui quello che l’opera riesce a dare è sempre e comunque una memoria, un qualcosa che ti porti dietro. Quello che mi interessa è un tipo di concetto applicato al momento in cui si vede una cosa, che poi non esisterà più e si ritrova sia nei video che nelle installazioni. Nei video, in particolare, la parte performativa, quella in cui succede qualcosa, è effettivamente l’opera; quello che il video poi rappresenta è la documentazione di quest’opera. In altre parole: si fa una performance, c’è un’azione, c’è una narrazione, poi questa finisce; quello che rimane è il video, cioè, appunto, la documentazione, che diventa opera. Questo è un aspetto fondamentale, nella lettura di lavori del genere, ma soprattutto del mio atteggiamento generale nei confronti di quello che faccio. Il concetto di distruzione è per me un concetto creativo.
D. | Dunque il fatto che la piovra sia disegnata su più piani, su più livelli è un modo con cui lei si è ‘adattato’ alle pareti della galleria, non è intenzionale?
P. C. | Sì, anche questo fa parte di un atteggiamento personale rispetto al lavoro. Non trasformo in maniera radicale uno spazio, non faccio un tipo di intervento ‘architettonico’, di trasformazione dell’ambiente con altri elementi (ad esempio finti muri); non ricostruisco lo spazio, ma lo accetto per quello che è; ogni volta è una sorta di sfida, perché i lavori vengono installati in delle situazioni preesistenti e non ho la più pallida idea di come finiscano. Perciò, spesso, faccio un parallelo tra l’opera d’arte e un miracolo: quando essa appare è, in un certo senso, un miracolo, qualcosa che succede per un tempo limitato e poi scompare.
D. | Anche il caso, a questo punto, il non aver tutto esattamente programmato diventa rilevante nei suoi lavori?
P. C. | Non credo che ci sia una programmazione generale rispetto all’opera (questa è un po’ una favola). Anche se si ha un progetto, verrà comunque il momento in cui le cose saranno ripensate. C’è sempre un cammino, durante l’opera, che magari porta da un’altra parte, se non dal punto di vista pratico, almeno da uno ideale. Non c’è mai un’opera finita, conclusa. E’ sempre un percorso in divenire, anche per questo, alcuni artisti lavorano fino a novantacinque anni, come Louise Bourgeois. Creativamente è un processo che non finisce, l’opera non è mai definita nella sua complessità.
D. | Quando ha capito che l’arte era la sua strada, che era quello che voleva fare nella vita, al di là degli stimoli ricevuti dalla famiglia?
P. C. | Sinceramente non l’ho capito, non è stata una presa di coscienza; era una strada segnata, io lo dico sempre: artisti non si diventa, si nasce. C’è una chiamata, quella dell’arte, a cui si risponde perché non si può farne a meno.
D. | Ma quando si nasce in una famiglia di artisti, a mio parere, si è immersi nel mondo dell’arte fin da piccoli, quindi magari si finisce per odiarla e voler fare tutt’altro nella vita…
P. C. | E’ chiaro che c’è stato un momento di ripensamento, di meditazione profonda rispetto all’essere o meno artista ed è durato anni. Ho trovato una maturità artistica e un’indipendenza sia dalle influenze di una città come Roma, sia da quelle della mia famiglia, pesanti da un punto di vista storico-artistico, dopo moltissimo tempo; in un primo momento non volevo accettare il fatto di essere artista, per cui ho cercato anche altre strade, poi mi sono reso conto che quella era, semplicemente, l’unica cosa che sapevo fare in maniera mediocre e che poi ho potuto sviluppare. Era, però, un’eredita pesante quella che mi portavo dietro, per cui non è stata una scelta semplice: ho dovuto, in un certo senso, psicoanalizzarmi, per superare quel tipo di barriere ideologiche e concettuali che c’erano all’interno della mia famiglia e ricostituirmi come entità indipendente da loro, e non è stato semplice.
D. | Si può quindi scovare una sorta di umorismo nascosto nelle opere, di satira, di ironia inquietante?
P. C. : Penso che ci debba sempre essere nell’arte, anche in quella più drammatica, più seria, o in quella concettualmente più profonda, un aspetto di distacco, ma nel senso più umano del termine; per quello mi piaceva Beckett. Egli giocava con l’umanità, con degli elementi umani che facevano quasi pena; si provava compassione per quelle persone così umane, da ritrovare anche se stessi. Penso che questo sia importante, per cui il sorriso è determinante, anche se non deve essere una chiave di lettura unica, come non lo devono essere le altre. Un’opera d’arte parla diversi linguaggi. Tutti questi linguaggi stanno sullo stesso piano, non ce n’è uno predominante sugli altri. Nel momento in cui uno di essi predomina, diventa un tema centrale e non ha più senso: diventa monumentalistico, fascista, impositivo, diventa arrogante e violento. Ci deve essere invece un momento in cui la lettura sfugge, si pensa di aver capito l’opera, ma a un certo punto ci si volta, magari uscendo dalla sala in cui è allestita, e si capisce che invece un determinato aspetto ci ha portato in un’altra direzione.
Per cui, tornando al discorso sulla memoria, il tarlo, il virus che un’opera attacca nel momento in cui la si vede è una cosa che deve rimanere dentro a livello permanente, che si porterà appresso sempre; quando ho visto le riproduzioni di certi quadri ho pensato che fossero dei bravi pittori, poi l’esperienza personale, fisica, con un quadro è completamente diversa. Ti attacca una ‘malattia’ di cui non ti liberi più. Io, nel momento in cui ho visto Guernica, ho capito quanto fosse stato grande Picasso. Dalla riproduzione non potevo capirlo. Dal vivo, invece, è stata un’emozione talmente forte che mi è rimasta dentro e penso che questa debba essere l’esperienza dell’arte.
D. | Personalmente, ho avuto delle sensazioni simili con Le nozze di Cana, di Veronese…
P. C. | Sì, è un gran quadro, ed è buffo che lo dici. Sto ragionando molto in questo periodo sulla presenza di un quadro, su quello che l’esperienza diretta con un quadro lascia, e che la riproduzione non può dare. E’ buffo che parli de Le nozze di Cana, perché quel quadro si trova al Louvre, nella stessa sala della Gioconda. Se entri in quella sala, la Gioconda è sistemata nel punto nevralgico, centrale, e la gente va a vedere solo quella. Stavo pensando di fare un video, in cui mettere una telecamera dal punto di vista della Gioconda, verso il pubblico, e di fare un ritratto del pubblico che la guarda. Mi sembra un’idea divertente, perché ci sono dei quadri importantissimi, come appunto Veronese, il San Giovanni di Leonardo, Tiziano, proprio in quella sala, ma tutti guardano solo la Gioconda, che è, in un certo senso, il quadro più banale del mondo.
D. | Penso che la ‘genialità’ sia riuscire a esprimere tanto con il meno possibile. Lei condivide questa mia affermazione?
P. C. | Certamente! Ho sempre pensato che la cosa importante nel lavoro fosse racchiudere una serie di significati giganteschi (è per quello che prima parlavo di un messaggio che l’arte può dare, ma che è sempre un messaggio che alla fine poi sfugge, perché comunque dà un altro significato, un’altra prospettiva, un’altra strada da percorrere). Penso sempre all’arte come a un paesaggio, in cui un individuo può navigare con la vista e trovare diversi punti di riferimento, diversi interessi. L’opera d’arte, secondo me, è importante, è bella e stimolante nel momento in cui non si chiude in una struttura a senso unico, ideologica, di tecnica, ma apre a diverse prospettive, apre soprattutto il pensiero di chi la guarda. Per quello che concerne me stesso, io sono nato, cresciuto ed educato in un tipo di educazione con milioni di stimoli; una città come Roma non si conclude in uno stile architettonico, in un’esperienza artistica a senso unico: è una città che è stata costruita un livello sull’altro, dove le cose si sono assorbite, si sono trasformate, c’è questa metamorfosi continua della storia. Nel momento in cui si studia, si scopre che il pavimento di una chiesa è stato fatto con gli avanzi dei pavimenti dei palazzi patrizi, le colonne sono di un tempio greco, ecc. Per cui, racchiudere un senso completo, assoluto, nel ‘delirio’ barocco è quello che io mi sono posto; cioè il mio tipo di messaggio doveva essere di un minimalismo barocco, un qualcosa che avesse visualmente, formalmente un aspetto molto chiaro, ma concettualmente una serie di livelli, in cui, quanto più si scava, più se ne trovano, come in una sorta di viaggio archeologico mentale, dove i livelli di lettura sono molteplici e ognuno di essi si attacca all’altro. Guardare, quindi, un pezzo di gomma che si trasforma in un’idea di elmo, ma che effettivamente dell’elmo, della corazza non ha nulla, è soltanto una presenza, un fantasma, in quanto nel momento in cui lo si stacca diventa inerte, perde di senso e di forma.
D. | Quanto è importante il disegno?
P. C. | Il disegno penso che sia fondamentale. E’ il seme dell’idea. Quando pensiamo ad un’opera, è come se la disegnassimo mentalmente, con lo sguardo, con l’immaginazione. Il disegno, nella pratica, può assumere diversi aspetti, per me è la nota iniziale, di-segno (se dividi a metà il termine) è il primo segno su un pezzo di carta, è l’esperienza più intima, è come scrivere, in un certo senso, ma non ha il dogma della scrittura che impone un linguaggio, un tipo di carattere, di lettering: nel disegno, essenzialmente, puoi far come ti pare; lo puoi fare su un muro, su un pezzo di pietra. E’ l’inizio di qualcosa, di un’espressione, il primo, quello che diventa più visibile. Rispetto all’arte visiva è fondamentale. A me è interessato per molto tempo perché parte dalla mia educazione artistica, accademica. Ad un certo punto, l’ho abbandonato; mi ero reso conto di saper disegnare, ma questo era diventato per me un limite, nel senso che mi imponeva una struttura visiva troppo legata alla mano, al saper fare; era diventato un po’ manieristico, così l’ho abbandonato e ho cercato di ‘disimparare’ il disegno, ed è quello il periodo in cui ho fatto disegni che erano un po’ degli scarabocchi, che riportavano soltanto delle forme, in cui c’era un’assenza di chiaroscuro, di elementi formali, ma la forma diventava una sorta di silhouette, di scarabocchio il più possibile automatico; li facevo dovunque, cercando di avere un atteggiamento istintivo rispetto a ciò che usciva fuori. Erano come una serie di fantasmi della mia infanzia, era la mia ricerca di quel periodo. Successivamente, pian piano, ho ripreso il disegno, quando cioè avevo effettivamente la possibilità di disegnare qualcosa. Allora, il mio problema fondamentale era cosa farci col disegno. Praticamente, attraverso il disegno, ho progettato, raccontato qualcosa che faceva parte delle installazioni o dei video.
D. | Il suo atteggiamento nei confronti della religione è critico? Cioè, lei crede in Dio ma rifiuta le religioni, crede in Dio ma non nel modo di professare la fede, oppure le sue opere con riferimenti religiosi nascono in totale contrapposizione alla fede?
P. C. | No, non credo che si debba necessariamente dire che si è in contrapposizione a qualcosa. Non credo che ci sia un aspetto critico dell’arte rispetto alle religioni e alle credenze. Nel momento in cui un artista si mette all’opera, c’è chiaramente una riflessione su quello che può essere un aspetto spirituale nell’opera stessa. Anche l’artista più razionale ha quell’atteggiamento, perché comunque l’opera vive per conto suo e rappresenta qualcosa, a livello fisico o emozionale. Per me l’opera ha sempre rappresentato un’entità spirituale, per cui è chiaro che credo nell’entità spirituale, prima di tutto dell’opera e poi dell’arte come strumento. Che poi questo faccia riferimento a una o più religioni non credo, sinceramente, che sia importante. Se uno usa un crocefisso, una madonna o qualsiasi altra icona che faccia riferimento a dei dogmi antichi di millenni, ci sono sì delle influenze, ma quello che voglio sottolineare è il tipo di interpretazione che la società vi ha poi trovato. Nel senso, la madonna in sé è soltanto una signora di una certa età, vestita in una certa maniera, magari somiglia un po’ a una zingara: se tu prendi la madonna come elemento concreto, effettivamente è soltanto quello, ha un certo tipo di sguardo, una determinata iconografia; cos’è poi che la fa diventare Madonna? È la credenza popolare, i dogmi che abbiamo assorbito per millenni, per cui effettivamente poi la si rispetta da punto di vista religioso. Però in sé, quell’immagine non è che abbia un valore, così come non ha un valore l’oggetto o il manufatto artistico. In altre parole, se tu prendi una madonna lignea dipinta, del Settecento, bellissima, oppure una madonna di Luca Della Robbia in ceramica, e prendi poi una madonna che puoi trovare nei negozi intorno al Vaticano, o la riproduzione su una medaglietta, o una statuetta in plastica fosforescente, qual è la differenza rispetto al tuo credo? Nessuna, quella è comunque un’immagine sacra per te, non diventa sacra rispetto al materiale o rispetto a com’è stata fatta: è l’immagine, è l’idea che tu hai di quell’immagine, che hai assorbito nella tua educazione, nella tua storia personale, a farla diventare importante. Tu ci metti quel significato, non lo metto mica io?
D. | Nel futuro immediato che progetti o mostre ci sono?
P. C. | Dopo aver fatto la mostra alla Galleria Nazionale e al Centro Pecci insieme a Germano Celant, ho soltanto quella del Drawing Center a New York. E’ un momento di riflessione, per cominciare un’altra serie di opere, che sarà un ulteriore punto di vista sulla pittura e sull’idea di pittura, sull’idea di immagine, di cui parlavamo prima, di come l’immagine poi, effettivamente, non sia importante da un punto di vista fisico, ma sia importante lo spettro, il fantasma, la memoria da un punto di vista emotivo, interiore. Sarà un tipo di ricerca sulla pittura, su delle icone della pittura moderna, classica o contemporanea e la traslazione di quest’idea, attraverso il mio punto di vista.
D. | Una curiosità personale… Le piace la musica?
P. C. | Sì, molto. Non ascolto un genere di musica particolare. E’ come il tipo di informazione che metto nelle opere, può essere da quella più popolare a quella più alta, intellettuale. Non credo nell’atteggiamento radicale, intellettuale, secondo me sbagliato, in cui non si possono trovare dei valori nelle espressioni più normali, popolari. Penso che sia interessante tutto ed è bello riuscire a mettere tutti questi ingredienti nella mente, che è un gran frullatore e a tirar fuori una ricetta, in cui c’è il risultato finale. Con farina, acqua, lievito si fa una torta: secondo me l’arte ha quel tipo di elemento ‘magico’, per cui nel risultato poi non si riconoscono più gli elementi singoli. Si guarda l’opera, poi in essa ci sono degli elementi che fanno riferimento a una miriade di altre cose.
D. | Per me può bastare, vorrei solo un autografo sul mio catalogo…
P. C. | - sorride - …
Antonio Pizzolante
(8 febbraio 2011)