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INTERVISTA | Gino Sabatini Odoardi

www.ginosabatinodoardi.com: il primo incontro con Gino Sabatini Odoardi è avvenuto navigando nel suo sito. Irriverenza, curiosità, tanta. Sono state le prime sensazioni provate osservando i suoi lavori. Un piccolo sorriso, quasi un ghigno, per quelle opere così visibilmente dissacranti, decise, una pioggia di messaggi, uno dopo l’altro. Il punto è che Sabatini Odoardi non si accontenta delle risposte. Non crede nella possibilità di una verità assoluta, indiscutibile. Questa mancata resa lo spinge a osservare la realtà quotidiana che lo circonda e a pretendere soluzioni quasi utopiche. L’arte allora diventa l’opportunità di nuove sperimentazioni. Le Termoformature, infatti, sono la nuova fase di una ricerca iniziata nei primi anni Novanta con il sottovuoto. Alla primaria necessità di ostruire lo scorrere del tempo, attraverso procedimenti artistici inaspettati, si è aggiunta una ricerca formale che lo ha condotto a promuovere rimedi alternativi caratterizzati da un classicismo d’altri tempi. Allo stridente rumore sociale risponde con un chiaro e distinto silenzio, colmo di consapevolezza. I lavori di Sabatini Odoardi sono la rappresentazione di un abile prestigio.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

Senza titolo, 2010, video 4’, vari video-still

Domanda | Su 'Flash Art' del novembre-dicembre 1967 Germano Celant pubblica Arte povera. Note per una guerriglia e scrive:«Un nuovo atteggiamento di ripossedere per ripossedere un reale dominio del nostro esserci, che conduce l’artista a continui spostamenti dal suo luogo deputato, dal cliché che la società gli ha stampato sul polso. L’artista da sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sorprendere e colpire con l’opposto». Ti riconosci in questa definizione?

Gino Sabatini Odoardi | No. Perché ogni artista ha vissuto il suo tempo che ha interagito con un clima culturale che io non ho vissuto. Inevitabilmente ogni artista ha lasciato una traccia di quel tempo che ha respirato. Io personalmente mi sento molto vicino ad alcune esperienze di Jannis Kounellis, vicino in termini di sensibilità espressiva. La fascinazione che ho - come ho già detto in altre interviste - è relativa soprattutto alla mensola, all’idea dell’ombra, della traccia che spesso lascia col fuoco o con delle esperienze oggettuali anche drammaturgiche, perché nel suo lavoro c’è un’idea di teatro, è contemplata anche quando non c’è un corpo, e questo mi interessa molto. Il fatto che sia un classico è un dato imprescindibile, lo si intravede, lo si intrasente, fa parte della sua origine. Il respiro di quel classicismo performatico-installativo mi ha sempre affascinato, sedotto, turbato. Formalmente posso affermare che ho respirato la sua idea di Arte Povera, che mi ha, in un certo senso, condizionato. Come diceva Marcel Duchamp «Nessuno può sottrarsi alle influenze che ci circondano».

D. | Emerge, nei tuoi lavori, una casualità controllata.

G. S. O. | Decisamente. Infatti anche nel mio lavoro possiamo parlare di casualità controllata, soprattutto durante il processo di termoformatura. E’ un’azione complessa, controllata a vista, decidere in pochi secondi quanto la plastica deve essere aspirata, immaginare come l’oggetto prenderà forma una volta rivestito di polistirene. In quel momento tutto è casuale e nello stesso tempo controllato. Non so se la plastica prenderà una piega all’interno dell’avvallamento oppure no. Anche perché se in quel preciso punto non è stata riscaldata a sufficienza, lì si modellerà con un’altra ondulazione. Ciononostante, quel particolare processo è sempre verificato a vista. Non molto dissimile concettualmente dalla danza frenetica di Pollock sul quadro, quando faceva sgocciolare lo smalto liquido. Anche in quel caso possiamo parlare di pura casualità combinata e controllata. Questo mi interessa.

D. | Continuiamo a parlare delle fonti. Duchamp, durante un’intervista, fa un’analisi di quello che è il rapporto tra l’artista e lo spettatore. A tal proposito dice: «Credo sinceramente che il dipinto sia fatto tanto dallo spettatore quanto dall’artista. Lo spettatore, quindi è altrettanto importante dell’artista nel processo artistico». Credo che anche nel tuo caso valga, in parte, questa affermazione. Analizzando i lavori ho percepito una tua necessità di comunicare. E’ come se il fruitore dovesse mettere in gioco la propria condizione, porsi delle domande. E’ così?

G. S. O. | Forse, anche se spesso il mio segno è la testimonianza di una disfatta, è una ricerca continua pur avendo la consapevolezza di non riuscire a trovare nulla. Questa visione poco confortevole porta da un lato ad avere l’esigenza di avere un interlocutore, mentre altre volte ho la parziale intuizione che di questo interlocutore posso farne a meno. Sembra paradossale, ma è così. Questa testimonianza crea prima di tutto un malumore a me stesso. Non cambia molto se lo spettatore riesce ad entrare in empatia con il mio lavoro. Certo, lo può giustificare sul piano conclusivo, ma è un problema che non mi pongo. Quando concretizzo un lavoro, non ho l’idea dello spettatore davanti a me che deve poi realizzarlo duchampianamente. La mia è già una presa di coscienza di una determinata sconfitta. Il fatto di consegnare il mio lavoro ad un fantasma postumo, è già la consapevolezza coscienziosa di un fallimento che, non mi porta a star male per questo, anzi è come se esorcizzasse questa scomoda condizione. Se analizziamo l’opera Nudo, chiunque può completare l’opera perché è sicuramente performatica come azione. Mettere i miei vestiti sottovuoto, genera nel visionatore un’idea di 'nudo', che è ciò che manca. La reliquia serve a poco, è lo spettatore che integra e completa la parte del significato mancante, e non del significante (diventato vestito-reliquia). «Noi siamo quello che ci manca» affermava a ragione Carmelo Bene. Il gioco di rimandi tra significante e significato, in questo caso, prevede la contemplazione di uno spettatore. Certo, l’idea di uno testimone che entra in affinità con un mio  lavoro gratifica, ma non è a questo a cui principalmente miro. Negli ultimi lavori, in cui sottraggo, ibernizzo, congelo l’oggetto e lo consegno ad un fantasma postumo, lo spettatore non è contemplato, è già stato fatto fuori.  

D. | Duchamp raggiunge il ready-made attraverso la presa di un oggetto basata sullo stato dell’indifferenza. La tua scelta, invece, è specifica.  A cosa mira, il tuo lavoro?

G. S. O. | Il mio lavoro non mira all’indifferenza degli oggetti. Il legame comune è un’idea del 'Silenzio'. Quest’atteggiamento di astensione da parte di Duchamp è interessante perché sposta l’attenzione su un oggetto, se vogliamo, morto. Quanto più è indifferente, tanto più è invisibile, allora l’invisibilità è strettamente connessa a un’idea di 'scelta'. Nel mio lavoro no. L’oggetto che  scelgo ha una determinata carica simbolica che determina un’idea di pensiero concettuale e metaforico.

D. | Che però fai entrare in cortocircuito…

G. S. O. | Si. Mi piace l’idea di provocare un’interruzione visiva, creare degli incidenti, proprio perché quelle cariche simboliche non mi consolano. Nel momento in cui il mio malumore è tale che non so darmi risposte a delle logiche che hanno a che fare con piani più alti del pensiero, e non con il semplice quesito. In quel preciso istante decido il cortocircuito. Ma questo è un passaggio successivo del mio lavoro. Deleuze faceva una giusta separazione tra una domanda vista come problema esistenziale e un’interrogazione. Nelle sue lezioni universitarie sosteneva: noi viviamo nella logica delle interrogazioni. La quotidianità, la televisione sono un concentrato di interrogazioni inutili, tipo: Come stai? Che cosa hai fatto oggi? Questo è parlare senza dir nulla. Senza evocare nulla. Invece il problema che io sento ha a che fare con qualcosa che non è cronaca, non è illustrazione. Nel momento in cui non riesco a darmi delle risposte sull’enigma dell’esistenza, su questo buio che è la vita, è ovvio che la mia attenzione si sposta e si scontra su tutto ciò che è consolatorio. Purtroppo, dietro a quasi tutte le simbologie si nascondono logiche di potere che creano sfruttamento, umiliazione.

D. | Dunque, il tuo è un tentativo di smascheramento?

G. S. O. | Si. E’ anche una forma di ridicolizzare alcuni dogmi che non condivido. Lo faccio in maniera poetica, attraverso l’arte. Se fossi stato un politico, l’avrei fatto mediante un’azione politica. Sono un artista, lo faccio con un linguaggio che ha tutte quelle caratteristiche formali e seduttive dell’arte. Come ho già detto, utilizzo codici estetici che hanno a che fare con un’idea di armonia classica, plastica, pur tuttavia, sono come mele avvelenate, perché contemplano - mediante un cortocircuito – quel lato buio dell’indicibile. Il solo accostamento tra gli opposti crea una frattura. Non mi interessa la blasfemia fine a se stessa; mi interessa il trauma visivo. Purtroppo non riesco a consolarmi con ciò che la società impone. Viviamo in una congrega di gente che non pensa autonomamente, dove è già tutto codificato. Alcune situazioni mi creano molto disagio, cerco di darmi delle risposte, ma non ci riesco. Rispondo con altre domande, che corrispondono a forme di assuefazioni parziali.

D. | Poco fa hai detto che il tuo fare, produrre opere d’arte ti permette di raggiungere una sorta di tranquillità. E’ sempre così?

G. S. O. | Non sempre. Quando ho un’intuizione, in quel preciso momento non sono affatto tranquillo. Spesso sono i momenti più critici. Ti dico, i lavori migliori sono nati nelle situazioni più buie della mia vita. Quando mi sento bene invece, sono troppo sereno, da un lato mi rigenero, dall’altro non produco niente di interessante. I momenti in cui pervengo alla concretizzazione di un’idea, riesco in parte a placare quest’energia eccessiva. Per esempio, nel lavoro delle lapidi, vivevo sempre con enorme tristezza questa condizione dimenticata. Quando mi trovavo davanti ad una pietra sepolcrale in cui non c’era più nulla, mi amareggiavo, mi rattristavo. L’idea che questa energia fosse sparita per sempre, dimenticata, mi angosciava. Il fatto di poter realizzare questo lavoro, in parte mi ha tranquillizzato, mi ha placato per così dire. E’ come se avessi disinfettato una ferita. Ho la consapevolezza che questo accadrà anche a me, nessuno può sottrarsi all’inevitabile. E all’opera d’arte stessa. Questa non è un’idea negativa della vita, lo è solo se la si guarda in questa direzione. Se si ha la consapevolezza dello smarrimento dell’esistenza, senza false consolazioni, penso che la si possa apprezzare molto di più la vita, che si possa riscoprire i momenti più alti.

D. | A questo punto è fuori luogo aspettarsi una consolazione. Diventa banale? Bisogna superare il limite della consolazione?

G. S. O. | Assolutamente. Dichiarava Carmelo Bene in teatro: « la gente a teatro vuole piangere, qui nessuno vuole essere consolato». Le forme consolatorie non sono mai state ben accette nel mio lavoro. Mi piace l’idea dell’attrito, dello scontro, della scossa. In Senza titolo con cervelli, il gesto di frantumare dei cervelli, mi ha stravolto per settimane. Ho preso tra le mani dei cervelli che un tempo comunque hanno gestito un pensiero, un’emozione, anche se animali. Realizzando questo sacrificio barbaro (nonostante gli animali non siano stati uccisi per la performance) ho voluto scuotere questo imbarbarimento etico della società. Desideravo risvegliare e nello stesso tempo sconquassare coscienze addormentate. Viviamo in un momento di grande putrefazione morale (l’ho già detto un’altra volta) davvero triste, che dura da moltissimo tempo.

D.| Quindi hai rimosso qualcosa di imprevisto dal tuo spazio?

G. S. O. | Esatto. La mia idea di libertà va oltre ogni forma di restrizione. Anche il bicchiere (oggetto centrale in diversi miei lavori) può avere un limite, un confine, però, allo stesso tempo, possiede un’apertura. E’ un elemento seduttivo difficilmente razionalizzabile. Esso è significante e significato, contenitore e contenente. Può accogliere un corpo essendo un corpo. Ha una forma che rimanda a se stessa. E’ un oggetto che si presta molto al gioco plastico e dialettico del pensiero.

D. | Quindi non neghi, fai percepire la doppia possibilità, della riuscita, come della sconfitta?

G. S. O. | Inevitabilmente. Non è un caso che il catalogo si intitoli Postumo al nulla. Il nulla, ha in sé l’idea della sconfitta (che sembra emergere ogni volta); ma è una sconfitta che reclama di autorigenerarsi, di rimettersi nuovamente al mondo. Ripeto, piccole verità parziali ma che comunque tornano. Coscienziosi che veniamo dal nulla e torneremo nel nulla.

D. | Quindi la tua ricerca non porterà a nulla?

G. S. O. | Ahimé si. Un illustre uomo di pensiero disse che la filosofia e la scienza sono attività che non servono a nulla perché non danno risposte vere sulla verità. L’idea della ricerca ambisce soltanto a far emergere un’ulteriore domanda. Carmelo Bene affermava che «il grande teatro deve essere incomprensibile».

D. | Tu che convivi ad intermittenza con l’idea della morte, con la consapevolezza dello sparire, temi il suo sopraggiungere, nonostante questa presa di coscienza?

G. S. O. | Il mio è anche un lavoro esorcizzante, è ovvio. Ma la temo, mi spaventa, mi crea malumore, insofferenza.

D. | Dunque l’arte è l’unica certezza, consapevolezza di essere al mondo?

G. S. O. | Si. E’ l’unica condizione che mi permette di parlare anche con te. Se non avessi sentito la necessità dell’arte, probabilmente, non sarei qui adesso. Non mi interessano i ruoli che la società impone. L’artista non è una figura intercambiabile. Non ci sarà mai più un Picasso, un Giotto, un Masaccio, un Duchamp. L’osservazione sistematica del tempo che passa, della perdita dell’esistenza attraverso alcune esperienze mi fa sentire più vivo. E’ un giro della morte contromano, ma trovo che sia l’unico modo.

D. | Filo rosso del tuo percorso è quest’idea di Postumo. Il bicchiere, all’interno di questa poetica è anche il tentativo di preservare, contenere, verità altre per un domani?

G. S. O. | Il bicchiere è un luogo, che grazie alla sua semplicità formale è fuori dai codici. Mi da sempre nuovi stimoli. Quando non contiene elementi simbolici che intendo contraddire, è l’unico oggetto che in realtà mi tranquillizza, che non è carico di significati codificati. E’ uno spazio seduttivo che mi suggerisce sempre altre letture. E’ come se in questo luogo, geometricamente calcolato, puoi ripararti, ti senti al sicuro. In definitiva è l’unico orecchio vuoto a cui delego tutte le mie inquietudini.

D. | Tu proponi, attraverso l’atto creativo, una destrutturazione di certezze, di valori. In che modo?

G. S. O. | Mi piace l’enigma, anche quando ha la consapevolezza del trucco. Metto in contrapposizione situazioni paradossali che creano, alimentano, nuove letture, nuovi attriti. Alcuni lavori sono dichiaratamente contrastanti, blasfemi, ambigui, equivoci, sfuggenti, altri invece ironici. L’idea, quindi, è di ambire ad altri valori, che non sono quelli già disegnati. Il mistero non dà risposte vere su nulla, ma offre la garanzia e la consapevolezza di vivere in maniera nuova, senza convenzioni. L’artista crea qualcosa che non c’è. Affermava Deleuze: «La creazione è libertà. La creazione ti avvicina ad un’idea astratta di Dio». Basta pensare all’idea della robotizzazione, del processo industriale. Hanno creato il mito del posto fisso, che è la morte per ogni essere umano. Come fa una società ad essere di riferimento? Ci impongono il crocefisso nelle scuole: ma questo è medioevo. Non mi dà fastidio, ma trovo che non abbiamo bisogno di simboli, perché dietro al simbolo si nasconde spesso il fanatismo che crea discriminazioni tra gli uomini. L’uomo nasce libero e libero deve rimanere. La funzione dell’arte dovrebbe essere questa: ricordarti che sei libero e vivo.

D. | Pensi che il tuo lavoro rientri nell’ottica dell’incomprensibile?

G. S. O. | Spero di si. Il deserto è insito nel lavoro. Quando contemplo un’idea di testimone, è solo per metterlo in crisi, non per vezzeggiarlo.

D. | Parliamo della Termoformatura. E’ evidente che si tratta di un processo indagato, ben strutturato, che richiede fasi ben precise. Spieghi il procedimento tecnico? Inoltre, trovi che la serialità dei tuoi lavori sia generata anche dal tipo di scelta tecnica?     

G. S. O. | L’idea seriale, modulare spesso è necessaria anche per amplificare quel pensiero che in quel momento sottoscrivo. C’è, si sente la consapevolezza di aver studiato i grandi maestri Minimal (Judd, Andre, Flavin, Lewitt, Morris). Il modulo rafforza. E’ strategia ossessiva e seduttiva allo stesso tempo. Per quanto riguarda il processo tecnico, ho iniziato nei primi anni ‘90 con degli esperimenti di Sottovuoto, con buste di plastiche trasparenti, affidandomi sempre ad industrie. Venti anni fa non c’era nessuna traccia di quest’esperienza. A me interessava l’idea di ibernare l’oggetto, di sottrarlo al mondo per sempre, rivestendolo di un’altra pelle. Mi piaceva l’idea del panneggio sopra e sotto questa plastica. L’oggetto diventa un altro oggetto. Nel momento in cui aspiri l’aria, privi l’oggetto di una condizione vitale, quindi metaforicamente è come privarlo della vita. Ovviamente, il concetto di ibernazione prevede anche una rinascita. Ecco l’idea di Postumo. L’ibernazione è una morte temporanea. Questa prima fase è durata fino al 1998-2000, quando ho deciso di sperimentare altre plastiche, non più trasparenti. Ho cercato fabbriche che lavorassero una plastica più spessa, più densa. Questo ha significato anche investire economicamente molto denaro, perché quando ho iniziato a fare i primi esperimenti di termoformatura nel 2004, dovevo fermare industrie che avevano una produzione di 2000-3000 pezzi al giorno. All’epoca, la fabbrica a cui mi appoggiavo produceva cruscotti per le auto. Fermare una produzione di questo tipo significava garantire allo stabilimento la stessa entrata economica. Un macchinario per termoformature da me utilizzato (per la produzione di opere di cm. 90 X 90) ha dimensioni che superano i 4 x 4 mt. Occorrono pompe enormi per l’aspirazione dell’aria, centinaia di resistenze per riscaldare la plastica, fogli rigidi di plastica alti anche un centimetro. Il mio primo bicchiere termoformato è del 2004. I primi esperimenti si bucavano, si rompevano i bicchieri, si piegavano i legni. Insomma non sapevo come concretizzare le mie follie. Successivamente (dopo tante prove) ho capito come preparare l’oggetto da termoformare e come gestire il tutto.

D. | Che intendi e come viene preparato l’oggetto?

G. S. O. | Preparare l’oggetto significa indurirlo, rafforzarlo, solidificarlo, garantirgli l’integrità dopo le forti pressioni date dal calore e dall’aspirazione dell’aria. Il lavoro si sviluppa in tre fasi.

D. | La maggior parte delle termoformature sono bianche. Hai dichiarato che questa scelta è spinta dalla necessità di annullare il 'rumore retinico'. Me ne parli?

G. S. O. | Il bianco, contempla tutto. Non dà risposte unidirezionali. Contempla un’idea di luce così come la rielaborazione di un lutto, di un silenzio carico di tante parole non dette, ma meditate. Così come il nero e il rosso, gli unici altri due colori da me usati. In realtà questa triade ha a che fare con un concetto alto di bellezza orientale. Nella filosofia zen la massima espressione dell’eleganza è la sintesi di questi tre colori che ritroviamo anche nel trucco della geisha. I miei lavori spesso sono stati definiti piuttosto raffinati. Mi piace far passare un’idea forte in maniera seducente. Proprio come con la mela avvelenata. La mangi solo se è bella. In definitiva è il concetto di Male e bellezza, centrale in tutti i lavori di Fabio Mauri (il maestro più importante per me). Si Pensi alle parate naziste, attraenti e mostruose allo stesso tempo. L’idea del male, presuppone e contempla un’idea di bellezza. E’ come la propaganda politica che si struttura su una visione esteticamente accattivante. Far passare il messaggio della bellezza che si struttura come valore. Quanto più si è belli, tanto più si è moralmente validi e convincenti. Niente di più falso.

D. | Cosa pensi, quindi, dell’arte oggi in Italia. Credi che sia più difficile crearsi delle opportunità?

G. S. O. | E’ difficile perché non si investono risorse. Chi gestisce il potere auspica a mantenere basso il livello d’istruzione. Quanto più è basso, tanto meglio si gestisce il potere. Minare la cultura in ambito artistico, teatrale, musicale, filosofico significa continuare a gestire un determinato potere. La cultura, nel momento in cui la nutri, diventa pericolosa, perché ingestibile. L’arte non mente mai e ha tre vie obbligate: dilettantismo terapeutico, propaganda e ricerca pura. Bisogna capire subito cosa si vuole perseguire.

D. | Credi che l’arte oggi sia essa stessa un prodotto, una merce?

G. S. O. | Si. Può essere merce, ma per contraddire se stessa. La mercificazione dell’arte contempla, critica, giudica un’idea di merce per poi superarla. Anche il libro è un manufatto, ma supera se stesso con qualcosa che ti eleva.

D. | Progetti futuri?

G. S. O. | Non so risponderti. Vivo la consapevolezza dell’oggi. Ho tante idee che vorrei sviluppare. E’ tutto in divenire.

D. | Grazie tante.

Giovanna D'Ulisse

 

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