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Scipioneee…Scipioneee!

“In pochi anni Scipione ha fatto tanto cammino: egli ha guadagnato la gloria, mentre noi abbiamo perduto la giovinezza. Ci lasciò che eravamo ragazzi, pieni di ansie, ricchi di propositi, ragazzi dal destino incerto, dai lineamenti indistinti. Bastava lui ad accendere il fuoco: dentro quel fuoco ciascuno di noi buttò le poche pigne che aveva in tasca. Egli aveva la forte maestà di farci guardare tutto coi suoi occhi, di farci fiutare con le sue narici. All’ombra del suo immenso corpo noi non sentivamo nessun bisogno di crescere; e quando morì (per me Scipione era scomparso  qualche anno prima) tutto ritornò per noi povero e insignificante. C’è voluto lo sforzo di molti anni, i molti anni in cui ci siamo dispersi, per adattarci alle giuste dimensioni delle cose, ritrovare la forma dei nostri desideri, distinguere in noi quello che in lui avevamo confuso”.

Queste le toccanti parole con cui Leonardo Sinisgalli, in una prefazione del 1942  ad una raccolta di disegni intitolata “I 12 mesi di Scipione”, tributa il giusto encomio all’amico Gino Bonichi, detto Scipione, scomparso prematuramente nove anni prima. Mai parole furono più vere e illuminanti.  Pochi gli anni che il destino concesse al pittore, marchigiano di nascita ma romano d’adozione, per  esprimere il sacro fuoco dell’Arte che, senza sosta alcuna, divampava in quel suo cuore sempre propenso alle sfide e che mai si rassegnò alla tubercolosi, malattia che lo colse nel fiore degli anni provocando in lui una voglia sfrenata di esperienze e favorendo l’avviamento della sua carriera pittorica. La pittura diviene così il momento della rielaborazione, il processo attraverso cui rendere visibili le proprie inquietudini, l’istante in cui si genera l’unione fra l’elemento mondano e quello divino. Gli eccessi del viver terreno sono la linfa di cui quotidianamente si nutre Scipione che, consapevole dell’ineluttabilità del suo destino, decide di vivere tutto al massimo delle sue possibilità. Sottolineando il vantaggio che in alcuni casi la malattia può portare ad un uomo, Scipione la vive non come un elemento mortificante, ma come uno stimolo, un’enigmatica energia di attivazione che travalica i confini della normalità e lo conduce, attraverso le metamorfosi della percezione, in un territorio fantastico e allucinante. Autoritratti, nature morte, scene mitologiche, immagini simboliche, disegni: queste le opere di Scipione in mostra al Casino dei Principi di Villa Torlonia, concepite fra il 1927 e il 1933, anno della sua scomparsa. L’esposizione si apre con un serie di autoritratti fra cui spicca per potenza e saldezza lo scultoreo Autoritratto del 1928, che risente delle pose dei busti degli imperatori romani, tipici prototipi italici di stirpe romana. Ed è proprio questo rapporto con la romanità e Roma che farà dipingere a Scipione delle pacate istantanee di luoghi caratteristici della città, come la Piramide di Caio Cestio e l’Arco di Costantino (1929), Piazza Navona (1930) o il Colosseo (1931); qui l’occhio del pittore riesce a definire la monumentalità dei luoghi senza svilire il loro rapporto con la natura o la quotidianità. Elementi che ritroviamo nelle nature morte, dove ortaggi, uova, pesci, panini, divengono gli oggetti attraverso cui sperimentare quel tonalismo che gli sarà necessario per creare l’effetto della carne dei pesci e la corposità dei frutti. Frutti che ritroviamo nell’opera Il risveglio della bionda sirena (1929). Il quadro è uno dei tanti ritratti muliebri di Scipione da cui si può evincere il suo combattuto rapporto con il sesso, oscillante continuamente tra una volontaria mortificazione della carne e una tentazione costante; la sirena diviene il simbolo di un canto di amore carnale, di un amplesso ideale che si discosta da quello plebeo che Scipione ricercava tra le cortigiane disfatte e purulente dei bordelli, come illustra esemplarmente un disegno del 1930 intitolato Nuda. Questo fa parte di un corpus molto vasto di disegni, da cui emergono, corpi di donna amati e goduti sino alla degradazione che delineano il processo di un male senza rimedio, che finirà con l’imporsi ad ogni proposito di salvezza. Naturalmente, nei suoi disegni, Scipione non trattò solo di donne, ma anche  caricature, satire, capricci, parodie, fantasie, scene di osteria, paesaggi di Roma, ritratti di principi, di poeti e di cardinali; tutto questo repertorio figurativo gli servì per i quadri. Esempio eccellente è proprio il quadro con cui si chiude la mostra, il Ritratto del Cardinal Decano (1930), raffigurante il cardinale Vannutelli, nobile di sangue e principe di Santa romana Chiesa. Questo è il quadro celebrativo più importante di Scipione, che non ha voluto soltanto ritrarre il cardinale, ma l’ha voluto calare in una luce di eternità, celebrando quella luce divina di cui è intriso un porporato.  In conclusione la mostra non delude le aspettative, perché propone allo spettatore un insieme di opere che rendono efficacemente l’idea delle problematiche e temi affrontati da Scipione, non lasciando però scoperto il fianco a qualche critica: mi riferisco in particolare alla non sempre impeccabile azione delle luci, che a volte risultano essere troppo abbaglianti, perché investono l’opera frontalmente, altre volte invece risultano essere inesistenti lasciando il quadro in balia dell’oscurità. Si consiglia un uso diffuso della luce e non individuale.

Simone Giampà


Scipione 1904 -1933

7 Settembre 2007 - 6 Gennaio 2008

Musei di Villa Torlonia, Casino dei Principi, Via Nomentana 70 - Roma

www.museivillatorlonia.it

 

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