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Riflessioni su documenta 12 (in attesa che suoni un campanello…)

Una metafora convincente per descrivere la mia impressione su questa dodicesima documenta potrebbe essere l’opera di Andrei Monastyrski, esposta all’Aue-Pavillon: due pannelli sono mimetizzati tra le pareti dello spazio espositivo, uno posto all’inizio e l’altro all’uscita del percorso; sotto il primo una targhetta prega il visitatore di suonare senza però ricevere alcuna risposta, che arriva soltanto alla fine, dall’altoparlante del secondo pannello. Monastyrski sembra ricordarci che non siamo capaci di comprendere le nostre esperienze se non da una giusta distanza di osservazione; gli eventi anticipano qualcosa che saremo in grado di ricostruire soltanto dopo (ciò che Freud molto sinteticamente ha definito “azione differita”). Il mio problema è che non so se abbia sentito un campanello uscita da questa (prima) esperienza a Kassel; ho avuto l’impressione che qualsiasi suono si sarebbe potuto perdere nel labirintico sistema di opere, conferenze, prodotti editoriali e quant’altro. Un’ edizione che si è posta subito come medium tra artisti e fruitori ma che nella sua struttura “espansa” non ha fatto altro che trasformare la sua funzione di ponte in una fitta rete di informazioni e rimandi che, più che orientare, ha contribuito allo smarrimento. L’errore, se così può essere definito, credo sia dovuto alla (dichiarata) mancanza di forma che secondo il curatore Buergel dovrebbe incoraggiare un’esperienza estetica (dove “estetica” credo vada intesa nell’accezione più complessa e meno formale del termine) con le opere, affinché l’arte comunichi sé stessa e le sue istanze. Viene a questo punto da pensare con ironia all’opera di Gonzalo Díaz Eclips alla Neue Galerie: soltanto con la nostra ombra riusciamo a leggere ciò che su un pannello incorniciato è nascosto da una luce abbagliante: “Venire nel cuore della Germania, solo per leggere la parola ‘arte’ sotto la propria ombra”.  Se documenta 11 “Platorm5” era stata preceduta da quattro piattaforme di discussione, questa edizione ha creato i propri spazi di riflessione attraverso la pubblicazione di tre magazines nei mesi precedenti all’inaugurazione, tre piattaforme che, oltre a rivendicare la necessità di un’editoria critica artistica più impegnata e meno patinata (attraverso la partecipazione di novanta riviste da tutto il mondo), si è incentrata su tre questioni fondamentali: Modernity    s modernity our antiquity?, Life!/ What is bare life?, Education/What is to be done?.  Se la modernità sia già diventata la nostra antichità è una domanda con molte sfaccettature: secondo l’accezione di Baudelaire modernità deve parlare del presente, riuscire a rappresentare l’effimero, il transitorio, il flusso dell’esperienza, “…perché ogni modernità acquisti il diritto di diventare antichità – scrive Baudelaire - occorre che ne sia stata tratta fuori la bellezza misteriosa che vi immette, inconsapevole, la vita umana”. Forse sarebbe più giusto domandarci se il Modernismo (termine spesso confuso con Modernità) sia diventato la nostra antichità, elaborato da un Postmodernismo che non sappiamo ancora se sia o no finito. Sicuramente rimane intorno a noi un attaccamento formale al Modernismo (nell’arte, nel design, ed in altri aspetti della vita quotidiana) che rende difficile storicizzarlo completamente. E se per noi occidentali si tratta di affrontare e metabolizzare il nostro stesso patrimonio culturale, per i paesi investiti dal Colonialismo del XIX e XX secolo si tratta di elaborare questa “eredità obbligata” per sviluppare una propria Modernità (non sorprende quindi, che l’Arnold Bold Prize, riconoscimento assegnato all’interno della rassegna, sia andato a Romuald Hazomé, della Repubblica del Benin, che con la sua installazione e le sue maschere ricavate da rifiuti sembra restituire all’Occidente la propria spazzatura…).  Che Buergel sia fortemente influenzato dalla filosofia occidentale (soprattutto tedesca) lo si nota non solo dall’ Angelus Novus di Klee, posto simbolicamente all’ingresso del Fridericianum, ma anche dall’uso del concetto di “bared life” (vita nuda), sviluppato dal filosofo Giorgio Agamben (a sua volta mutuato da un’enigmatica definizione di Benjamin); un concetto che si intreccia con la biopolitica, il controllo non solo mentale ma anche fisico della vita umana attraverso le pratiche di potere. La vita nuda può essere riconosciuta come una vita senza diritti, incapace di prendere forma all’interno di una comunità, rimanendo puro corpo, soggetta a qualsiasi forma di violenza e negazione articolata all’interno o fuori l’ordine legale. Mi viene in mente la bellissima quanto struggente videoinstallazione dell’indiano Amar Kanwar alla Neue Galerie, che ci circonda attraverso la proiezione simultanea di otto schermi con otto diversi scorci di una violenza assoluta perpetuata su migliaia di donne nel 1947, a seguito delle guerre tra India e Pakistan.  Aldilà di alcune suggestioni, le tre tematiche discusse nei magazines non sembrano fare le veci di un catalogo pressoché inesistente, guidandoci attraverso l’eterogeneità dell’esposizione. Siamo stimolati a discutere su questioni profonde ed attuali (buona volontà e settecento pagine permettendo!), ma non riusciamo, salvo qualche eccezione, a trovare punti di riflessione nelle opere. Suoniamo il campanello senza udire nessun suono: chissà, forse arriverà in tempi un po’ più maturi, con la prossima edizione di documenta...

Valentina Fiore


documenta 12

direttore artistico: Roger M. Buergel

dal 16 giugno al 23 settembre 2007

Kassel - Germania

 

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