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Correspondances lungo le corderie dell'Arsenale (che ognuno dica la sua)

Pensa con i sensi – senti con la mente: probabilmente il titolo/leitmotiv dell’ultima Biennale curata dallo statunitense Robert Storr ha creato intorno a sé una cattiva reputazione prima del tempo, spingendo critici e comuni mortali a supporre che un titolo così generico potesse esprimere nient’altro che una banale generalizzazione del panorama dell’arte contemporanea, un escamotage per presentare tutto ciò che si voleva (e doveva) inserire senza troppi condizionamenti teorici. Eppure, come tiene a sottolineare lo stesso curatore nella prefazione del catalogo, pensa con i sensi – senti con la mente vuole riferirsi “semplicemente” alla necessità di definire in termini familiari la complessità dell’esperienza quotidiana, un flusso ininterrotto difficile da circoscrivere in categorie razionali precostituite. Eppure, percorrendo le Corderie dell’Arsenale, non c’è stata confusione, né incomprensione, ma bensì la sensazione che gli spazi consequenziali fornissero la giusta struttura per un racconto. Un racconto non lineare, intessuto di “correspondances”, in cui diverse tematiche di fondo si rincorrono, si incrociano, dialogano attraverso alcune delle opere presenti. C’è un motivo, spiega Storr, per il quale si è deciso di collocare all’inizio del percorso il lavoro di Luca Buvoli e quasi alla fine quello dei coniugi Kabakov: tracciare una linea immaginaria che, manipolando le coordinate temporali, affronti il crollo delle ideologie nel XX secolo. In Buvoli l’utopia futurista di un bellissimo dopodomani riemerge dal passato per essere decostruita nel presente, trasformandosi in un “futuro senza ottimismo”: il lavoro è una riflessione non solo sul patrimonio culturale italiano ma anche su “...un tempo di guerra, di futuro totalizzante; un tempo di de-attuazione della storia, in cui la promessa di libertà riecheggia in ricorrenti manipolazioni” [dal vol.I del catalogo, p.46]. In Ilya & Emilia Kabakov sembra invece che la passata concezione di una città utopistica, paradigma del socialismo sovietico, sia purificata e trasfigurata nella visione senza tempo di Manas, modello di città che fonde spiritualità e quotidiano, città terrena e città celeste.  Un’utopia, per definizione irrealizzabile, che fa riflettere sul nostro modo di abitare la realtà. Paradossale quanto inquietante il passato che torna dal futuro nell’opera dell’americano Charles Gaines: un modellino in legno simula ripetitivamente, regolato da un timer, lo schianto di un aereo su una metropoli che ricorda molto Manhattan. L’opera è del 1997, ma più che profetizzare ciò che per noi rappresenta ormai (o forse, già) uno spartiacque storico, il crollo delle Twin Towers l’11 settembre 2001, riflette la paura radicata nell’Occidente di non essere più spettatori di guerre, ma di diventarne testimoni diretti. E’un terrore che nel presente si concretizza in Medio Oriente, ed il cui spettro è più che mai vivo nei Balcani e nei paesi dell’America Latina. Gli sleepers di Yto Barrada; la Beirut bombardata di Gabriele Basilico, così parlante nella sua desolazione decadente eppure esteticamente impeccabile, quasi monocroma se non fosse per l’emergere qua e là di qualche vegetazione verde brillante (traccia della vita che, nonostante tutto, resiste); i paesaggi apparentemente anonimi, eppure così politicamente segnati di Tomolo Yoneda; i manichini menomati quanto stranianti usati per simulare situazione di emergenza negli ospedali israeliani di Tomer Ganihar; il bambino che, nel video di Paolo Canevari, palleggia tranquillamente con un teschio in un quartiere di Belgrado (l’ex quartier generale dell’esercito serbo bombardato dalla NATO nel 1999). La guerra del XXI secolo ha un’estetica perversa, così vicina e diffusa agli occhi di tutti da risultare nei suoi schemi e nella sua ripetitività “normale”: quella “banalità del male” che Hannah Arendt descriveva già quarant’anni fa. Colpevoli in primo grado per questa manipolazione e assuefazione all’orrore, i media: il lavoro di Zoran Naskovski  War Frames è costituito da fotogrammi prelevati dal palinsesto televisivo nei giorni del bombardamento della Yugoslavia da parte della NATO; Neil Hamon con i suoi finti fotodocumentari di guerra, denuncia con amara ironia il confine tra verità e finzione. Per Paula Trope la fotografia può riscattare la promessa di indicalità: nel suo lavoro Sem Simpatia, invece di fotografare i ragazzi della favelas di Rio de Janeiro decide di affidare a loro l’atto di fotografare, facendolo diventare strumento creativo di autoaffermazione. Oscar Muñoz si appella a Barthes, ed all’importanza della fotografia come ultima traccia di un referente che ormai non c’è più; eppure, i volti delineati con brevi pennellate del suo video   i   Proyecto para un Memorial vengono presto riassorbiti dal supporto: “Il ricordo scorda. Morti, muoriamo ancora” scriveva Pessoa.  Dimenticare i morti, le vittime delle guerre, è come ucciderli una seconda volta.  A metà del percorso un grande pallone sospeso in aria sovrasta le sale delle Corderie: è   i A camouflaged question in the air di Hiroharu Mori, un grande punto interrogativo in stoffa mimetica a disposizione di tutti, un invito a fermarsi, a rimanere sospesi nei propri pensieri per interrogarsi sull’alterità, l’altro   i   da noi ma anche   i   in  noi. L’Altro può parlare di immigrazione, come i lavori di Adel Abdessemed (Exit, opera che ricorda esteticamente le ricerche concettuali ma ne sovverte la tautologicità) e di Eyoum Ngangué e Faustin Titi (Une éternité à Tanger, una storia triste e quotidiana, quello di un ragazzo che tenta inutilmente di fuggire dall’Africa verso la Spagna, raccontata attraverso un medium “leggero”, il fumetto). L’Altro può anche parlare di comunicazione, e delle complesse difficoltà con cui è strutturata: come lo slittamento e la conseguente manipolazione di significato nei processi di traduzione interlinguistica presentata da Dmitry Gutov e David Riff; o la costante lotta di reciproca comprensione all’interno del rapporto uomo-donna metaforizzato nel bel video di Sophie Whettnal.  Molto interessanti i lavori di Christine Hill e Christian Capurro, che si fronteggiano all’inizio della nona sala: i deliziosi “uffici portatili” della prima rimandano ad una ricerca più vasta che l’artista sta portando avanti con la sua i Volksbotique, un’azienda artistica che sviluppa ricerche e riflessioni sul lavoro, la complessa dinamica tra il suo valore d’uso e di scambio, investigando anche l’arte intesa come bene di consumo. Linee di ricerca simili sono seguite anche da Capurro: nel suo i Another Misspent Portrait of Etienne de Silhouette chiede a 250 persone di cancellare a mano le pagine di un Vougue, scrivendovi poi sopra il tempo impiegato ed il valore economico dell’azione in base al proprio stipendio.  Cosa può racchiudere e al contempo superare i temi affrontati, o semplicemente sfiorati, lungo tutto il percorso delle Corderie? La morte viene interpretata da differenti prospettive: Jan Christian Braun ci mostra come la New York post 11 settembre esorcizzi la morte attraverso scatti di curiose tombe sparse nei cimiteri del Queens, di Brooklyn, del Bronx, di Manhattan; Yang Zhenzhong affronta il tema in modo più universale: diverse persone, di diverse etnie e religioni enunciano davanti ad una telecamera la stessa frase, la stessa verità assoluta: “io morirò”. Cambia la lingua, si differenziano le reazioni, ma tutti siamo accomunati dallo stesso destino (come nell'opera di Oscar Muñoz, anche Zhenzhong evidenzia il potere commemorativo della fotografia, oltre a quello del video).  Un memento mori che Angelo Filomeno affida ai suoi teschi preziosamente ricamati su tele cangianti, dal macabro gusto barocco, nelle quali l’iconografia dell’arte occidentale si fonde con visioni e humor contemporaneo.  Nell’ultima sala decine di palloncini librano sospesi sul soffitto: gli   i   Speech Bubbles di Philippe Parreno, palloncini che ricalcano la forma delle nuvolette dei cartoons (in gergo, speech bubbles), invitano metaforicamente tutti ad esprimere le proprie opinioni.  Ladies and gentleman, ognuno dica la sua: che almeno nell’aria esista ancora lo spazio per le opinioni di tutti...

Valentina Fiore


Biennale di Venezia. 52. Esposizione Internazionale d’Arte

dal 10 giugno al 21 novembre 2007

Corderie dell'Arsenale - Venezia

 

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