Sei qui: Home Magazine ARCHIVIO SC MAGAZINE
  • Increase font size
  • Default font size
  • Decrease font size
Cerca

www.sguardocontemporaneo.it

Passeggiata semiseria attorno ai Giardini della Biennale

AVVERTENZA: IL SEGUENTE REPORTAGE E’ FRUTTO DI UNA PASSEGGIATA SEVERA QUANTO DISTRATTA ATTRAVERSO I GIARDINI DELLA BIENNALE DI VENEZIA. E’ VIVAMENTE SCONSIGLIATA LA LETTURA AI BENPENSANTI E AI SACERDOTI CUSTODI DELLE SACRE SCRITTURE DELL’ARTE.  Il tempo è mite, qua in Laguna. Man mano che cammino per Venezia l’abbigliamento della gente mi suggerisce la distanza dal mio obiettivo, i Giardini: capisco di essere sempre più vicino quando il numero di scarpe “radical chic”, giacche strette anni ’70 e sciarpe di pashmina aumenta a dismisura. Capisco di essere dentro quando un addetto alla biglietteria con una vistosa serie di “piercing” sparsi tra orecchie e faccia mi chiede di sborsare 6 euro. Oggi è il 26 settembre. Mi addentro e già la mano è presa da un formicolio grafomane: tutta quest’attenzione all’estetica (non quel settore della filosofia che si occupa della conoscenza e del giudizio sul bello naturale e artistico) non può passare inosservata, almeno non a me. Sembra di essere ad una sfilata; ma, in fondo, non è anche questa un’espressione artistica? Sta di fatto che il mio vestiario mi fa sentire completamente inadeguato alla situazione rispetto a cotanta, evidente presenza di pseudo artisti-critici. Ma è giusto così, che vengano stabiliti dei ruoli. D’altronde, cosa pretendo, sono un semplice studente, un pivello dell’arte e nemmeno vestito troppo bene. Ad ognuno il suo. Anche se un po’ mi rincresce esser già bocciato senza aver messo piede nel primo padiglione. Ed è a partire da qua, dal Padiglione Spagna, che prendo la mia rivincita. Mentre la maggioranza dei presenti si limita a scuotere la testa come a dire “ma che c’azzecca quest’opera alla Biennale?”, subito mi trovo di fronte ad un artista da “top five”. Si tratta di Ruben Balsa e della sua installazione: un tavolino con un bicchiere riempito d’acqua ed una cannuccia all’interno, affiancato da un altro tavolino delle medesime dimensioni con un televisore sopra. Ad un tratto nel televisore compare la faccia di un bambino; è sorridente, ma sembra anche molto lontano (complice una leggera filigrana che altera la definizione del video), quasi una manifestazione dall’Aldilà. Il bambino si trova di fronte ad un tavolino, sopra al quale sono presenti un bicchiere riempito d’acqua ed una cannuccia all’interno; in pratica lo stesso scenario presente in sala. Poi il bambino inizia a soffiare attraverso la cannuccia nel bicchiere, producendo delle bolle, e in contemporanea, quasi per magia, anche la “vera” cannuccia del “vero” bicchiere sopra il “vero” tavolino inizia a vibrare, producendo delle bolle simili a quelle del marmocchio nel video. Un lavoro davvero evocativo, poetico, giocato sulla dualità assenza/presenza, sulla persistenza che un gesto lontano può avere nel “qui ed ora”; ma anche una riflessione su un raddoppiamento che è soltanto apparente. Prendo nota e, alquanto gasato, proseguo la marcia in direzione Padiglione Italia. Qua rimango un po’ sorpreso: tante opere, molte di diversa tipologia. Ancora mi sto interrogando sulla coerenza interna del padiglione, tuttavia, qua e là, qualcosa di buono merita di essere appuntato. E’ il caso del video dell’australiano Shaun Gladwell, che mostra un ragazzo con lo skate in riva al mare mentre si esibisce in movenze simili a quelle di un surfista, cavalcando non onde ribelli, ma il riverbero flebile della risacca. In sé, non è niente di trascendentale, ma il ritmo del video – ad una velocità volutamente rallentata e scandita, unito al suono delle onde che si infrangono – invita, anzi obbliga a rimanere incollati alla proiezione. Certo, la potenza di un Bill Viola è lontana, ma il ragazzo, classe ’72, promette bene. Molti video: da segnalare il giapponese Tabaimo, che ricrea una casetta vuota vista in sezione mentre viene arredata da una gigantesca mano, una sorta di “deus ex-machina”, che inserisce mobili e suppellettili varie come si trattasse di un plastico o una casa delle bambole. A complicare il tutto, una gigantesca piovra animata che va ad invadere lo spazio dell’abitazione: quando l’ambiente diventa insopportabilmente saturo, la mano – evidentemente stufa di quel giochino che non da più soddisfazione – inizia a stravolgere la casetta, spazzando via tutto fino alla semi-distruzione. Lo stile è fumettistico ma l’amarezza della potenza ordinatrice/distruttrice della manona e la forza ritmica dei suoi gesti sembrano celare un qualcosa di molto profondo. Mi colpiscono anche la bella scultura di Chen Zhen, una sorta di inginocchiatoio da chiesa ricoperto da centinaia di candele unite fra loro dalla cera sciolta (anche se l’utilizzo di tale materiale è stato un po’ abusato, da June-Paik ad oggi) e la stanza allestita dal brasiliano Waltercio Caldas: ed è qui che inizio ad accorgermi che ancora oggi l’arte sta facendo i conti con un passato ancora molto presente. Mi riferisco alla Minimal Art (e alle sue deviazioni “optical”) vera regina del Padiglione Italia. Caldas costruisce una stanza fatta di linee aggettanti metalliche verticali e orizzontali, scandite da alcuni divisori trasparenti. A terra, altrettanto regolarmente distribuiti, delle pietre levigate. Il riferimento alla neoavanguardia è palese. Anche perché, nelle sale attigue trionfano i “vecchietti terribili” Ellsworth Kelly, Gerhard Richter, Robert Ryman e tanti altri giovani e big (magnifica la parete di Sol Lewitt eseguita a matita) che si collocano sulla scia del minimalismo. Potrebbe sembrare un’operazione antologizzante, ed in effetti lo è: ma, nonostante la scarsa novità del contenuto artistico, c’è tanto bel vedere in mezzo a quest’omaggio meritato ad una corrente che tanta influenza ancor oggi sembra esercitare. Vista e considerata la Biennale 2005, non è poco. Per il resto, tanta pittura “old-style” con tele e superfici di dimensioni gigantesche: che la grandezza di un’opera sia inversamente proporzionale alla sua qualità? Così mi fanno pensare, osservandole, le vaste superfici dipinte del pakistano Nalini Malani, dello statunitense Raymond Pettibon e dalla nigeriana Odili Odita; si salvano, e alla grande, Polke, Kippenberger, Jenny Holzer ma senza dar mai l’impressione di esser di fronte alla novità assoluta. Una menzione particolare va al rumeno Dan Perjovschi con i suoi graffiti in gesso su superfici nere che accompagnano il visitatore in più punti della Biennale: la spontaneità del suo segno mi ricorda quella scrittura automatica con cui decoravo i banchi di scuola nelle ore più noiose. All’esterno, ma sempre facente parte del Padiglione, è collocata una magnifica installazione del collettivo brasiliano Morrinho Group, che con un’infinità di mattoncini e sabbia ridisegna uno scenario urbano che ricorda l’assetto precario delle favelas. Voglio tranquillizzare il lettore: siamo quasi alla fine della passeggiata, nonostante mi sia soffermato su due soli padiglioni. D’ora in poi penso di potermi concedere un po’ di superficialità: sto zampettando senza sosta da almeno 3 ore, il sole spacca le pietre, sono in compagnia di tre amici e stamattina mi sono svegliato alle 5,30 dopo essere andato a letto alle 4. E sto scrivendo da troppe righe. Perché concentrarsi troppo? Spazio alla sintesi, dunque. Procedo distrattamente attraverso i padiglioni di Olanda, U.S.A., Gran Bretagna, Paesi Scandinavi, Australia e tanti altri che vorrei citare (compreso Israele, chiuso per le celebrazioni dello Yom Kippur: ma un addetto non ebreo che tenesse aperta la baracca non si trovava proprio?), dei quali tuttavia la mia memoria non conserva un buon ricordo.  Passo così a stilare una classifica dei cinque padiglioni che più m’hanno colpito in positivo e dei cinque che m’hanno fatto venire il mal di pancia.  Mi hanno entusiasmato: 1) Islanda: una stanza dalle pareti bianche con un mare di cocci e vetri spezzati di vari colori sui quali galleggia un’imbarcazione tipica, in legno. Appoggiata ad una parete, non distante dalla barca ma lontana quanto basta per impedire ogni tentativo di approdo, una lunga scala. Dicono che in Islanda ci si imbatta spesso in queste zattere semi-abbandonate in mezzo al mare. L’opera di Maaria Wirkkala parla di incomunicabilità e solitudine, magari non escludendone gli aspetti positivi. M’è venuta voglia di andare in Islanda. 2) Giappone: memoria storica e ripetitività. Masao Okabe ha realizzato in circa 10 anni 4000 frottage, ricalcando le superfici della stazione di Hiroshima e con essi (o meglio, su di essi) i segni del tempo che passa, testimoniati pure dall’azione umana. Semplice e diretto. 3) Russia: due opere in particolare: quella di Andrei Bartenev è una sorta di “cabina-doccia” dove sulle superfici, al posto dell’acqua, scorrono dall’alto verso il basso immagini televisive ad una velocità frenetica, mentre quella di Alex Ponomarev è un’evocativa video installazione che – sullo stile dello spagnolo Balsa – prevede un’azione sullo schermo che si riflette nell’ambiente reale circostante. Il video presenta la faccia di un uomo piuttosto bruto, colta in un momento di sforzo e tensione; di lì a poco, l’uomo emetterà un soffio vigoroso, attivando in contemporanea (tramite dei generatori di vibrazioni) il movimento dell’acqua contenuta nei circa dieci acquari che compongono l’installazione. So che il giochino è lo stesso del padiglione spagnolo, ma ci casco lo stesso.  4) Polonia: trovo un intervento site-specific di Monika Sosnowska: una stanza piuttosto ampia e algida praticamente tutta occupata da una carcassa metallica, simile ad una gabbia che attrae lo spettatore al suo interno e poi concede una via d’uscita problematica (un signore ha dato una zuccata pazzesca per divincolarsi nella carcassa). Mi affascina il pensiero di quel corpo informe e post-industriale come un mostro delle favole.  5) Francia: Sophie Calle, l’artista cui è stata data carta bianca, ha ricevuto una lettera di rottura della relazione da parte del suo (ex) compagno. La lettera si conclude con un classico “abbi cura di te”: Calle allora, quasi a volersi vendicare e mettere in ridicolo l’ipocrisia dell’ex, sottopone la lettera a più di 100 donne di contesti ed estrazioni sociali differenti per cercare di capire cosa significa quel “prenditi cura di te”. Nel padiglione sono presenti le foto di tutte le donne che hanno aiutato Sophie a razionalizzare le proprie pene d’amore, i loro racconti (in video) e tutte le versioni della lettera analizzata da ogni donna con le proprie riflessioni scritte a mano. Più che il valore estetico dell’operazione, ne ho apprezzato il valore concettuale. Come il dolore individuale può diventare paradigma delle sofferenze universali.  Mi hanno fatto prendere male: 1) Germania: trionfo del kitsch, animali impiccati, trolley da viaggio con giacche di pelle da motociclista appese. Volgare e già visto, a metà fra Paul McCarthy e Cattelan, non comunica nessuna suggestione, se non l’imbarazzo di chi ha dovuto allestire il tutto.  2) Venezuela: della serie “come non presentarsi ad una Biennale”: foto scontate dei paesaggi e dei nativi del posto, pessimo persino l’allestimento. Sembrava una mostra documentaria di una città di provincia. Monumento all’impresentabilità. 3) Svizzera: gli svizzeri non hanno solo un cuore di cioccolato, ma manifestano un insospettabile vigore cromatico: forse troppo. Ho trovato eccessive le decorazioni presenti in tutto il padiglione (un po’ grafica, un po’ murales, un po’ fumetto, ma niente di tutto questo), come a voler riempire a tutti costi un vuoto di contenuti 4) Australia: al padiglione Spagna una coppia di giovani coatti italiani passeggiava commentando ad alta voce le opere, facendo sorbire agli altri visitatori le loro alte discettazioni circa la mancanza di senso dell’arte contemporanea. Sembravano Sordi e la Sora Lella nel noto film ad episodi “Dove vai in vacanza?”, costretti dai figli ad una vacanza culturale proprio alla Biennale. Facevano quasi tenerezza, ma nel padiglione Australia ammetto d’essermi sentito anch’io un po’ come loro, senza riuscire a cogliere il valore, ma nemmeno l’impatto visivo, di queste tavole di legno (in salsa minimalista) che si snodano per la stanza. 5) Austria: solo pittura. Mi limito a dire che di Herbert Brandl, l’artista, non vorrei nemmeno un quadro in salotto.  In definitiva: cosa tirar fuori da questi Giardini della Biennale 2007? Dura da dirsi: tanto minimalismo, molta pittura, video interessanti, in ribasso (non come presenza, ma come qualità) la fotografia. In linea generale non una grande coerenza. Alla fine della visita vorrei incontrare Robert Storr (il curatore) e dirgli che mi sarei aspettato meno lavori e più novità. Credo che la bellezza di queste manifestazioni, così simile a grandi mercatini delle pulci, sia anche quella di saper cogliere nella moltitudine, poter passare e andarsene subito se non si è rimasti colpiti, giudicare in 10 secondi o soffermarsi mezz’ora di fronte alla singola opera che ci impressiona. Come quella del padiglione Romania che descrive il paese meglio di 100 fotografie e 1000 libri, o le installazioni al padiglione Egitto, con continui rimandi a metà fra rispetto per la tradizione e autoironia...Ma non voglio riattaccare, ho già parlato fin troppo. All’uscita non incontro Robert Storr, ma solo un signore che gli somiglia vagamente. Sono contento così, tanto ho già deciso che racconterò a voi le mie impressioni.

Saverio Verini


Biennale di Venezia. 52. Esposizione Internazionale d’Arte

dal 10 giugno al 21 novembre 2007

Giardini Biennale - Venezia

 

Pubblica questo Articolo

Facebook Twitter Google Bookmarks RSS Feed