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L’ARTE ESATTA DI MANFREDO MASSIRONI

Nel guardare la natura l’uomo ha sempre avuto la particolare inclinazione a volerla scomporre nelle sue molteplici unità, ad indagarla con attenzione nel profondo, a scovare i meccanismi che la costituiscono e dare a questi una forma oggettiva. Tra gli anni ’50 e ’60 fioriscono nel nord Italia dei gruppi di artisti (N,T,MID) che concepiscono la natura come una miniera di elementi visivi e cinetici, rappresentanti dei punti di partenza di nuove concezioni percettive ed estetiche della realtà.  Una di queste formazioni, il gruppo N, è attivo a Padova dal 1959. Tra i suoi fondatori, oltre ad Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa ed Eduardo Landi, spicca il nome di Manfredo Massironi, artista di enorme spessore intellettuale a cui è dedicata questa significativa esposizione per pochi intimi. Uno studiato equilibrio fra opera e spazio, opera e spettatore, spazio e spettatore, è condizione essenziale per entrare in contatto con l’esattezza di opere che risentono di un nuovo modo di percepire la natura ed i suoi rapporti con l’uomo, in un momento in cui le arti visive avevano esaurito la loro funzione commemorativa ed illustrativa.  Di questo Massironi era ben consapevole tanto che, attraverso i suoi copiosi trattati, tenterà di analizzare con sistematicità i fenomeni della percezione e di dimostrare che nell’opera d’arte ciò che veramente conta non sono le sue forme esteriori, ma solo le sue implicazioni di conoscenza e comunicazione con la realtà, il suo valore esplicativo e progettuale. A questo proposito Maurizio Calvesi in Tendenze attuali (1964) dirà: «… l’opera non vuole esprimere la personalità psicologica dell’autore, ma soltanto un’ipotesi di lavoro, di scientifica oggettualità […] l’atto estetico, non servendo più una finalità espressiva o comunque di testimonianza, si riferisce ad una finalità pratica, e questa finalità è l’inserimento nel mondo della progettazione e della produzione». Allora l’opera d’arte prima di essere un prodotto è un progetto: un progetto che vuole mostrare il reale da un’altra prospettiva. Ed è proprio quello che accade quando mi lascio affascinare dal concetto di “interazione con lo spettatore e con lo spazio” insito in opere come Cubo luminoso e struttura dinamica (1961), in cui le quinte di specchio possono essere ruotate liberamente, in modo da riflettere e combinare le luci provenienti dai quattro angoli dell’oggetto, mettendo così in gioco l’idea che un’opera non debba concentrarsi su sé stessa, ma abbia la forza di comunicare con l’ambiente e con l’osservatore; oppure in Struttura rottura di costanza (1969), opera in ottone che si autoforma nello spazio partendo dalla figura geometrica più elementare, il triangolo, per arrivare alla figura dell’ottagono attraverso un processo di addizione dei lati. Invece in Sottrazioni (1993) le singole figure che compongono l’opera vengono private di quelle caratteristiche basilari per la propria rappresentazione: così le cornici che segnano il perimetro di un quadrato e di un esagono vengono spezzate, aprendo la strada a nuove figure che cingono uno spazio altro, non convenzionale. Spazio che in Cubo Tridimensionale (1999) riesce a raggiungere gli effetti della tridimensionalità pur ricoprendo un elemento bidimensionale per eccellenza come la parete di un muro: qui non viene tirata in ballo la rappresentazione prospettica del cubo, ma la sua idea, che trova la sua esistenza in una convenzionale giustapposizione di segmenti. Lo spazio non è prospettico, ma ideale. A chiudere l’esposizione è  una delle sue opere recenti, Piegatura pesante (2006). L’acciaio viene tagliato con l’ausilio del preciso laser e poi inclinato così da formare una piega che rompe l’equilibrio dell’opera, permettendo allo sguardo di soffermarsi sullo sfondo bianco del muro. L’opera è stata spezzata, lascia spazio ad un “altro spazio”, richiama la nostra attenzione su ciò che la circonda, su quello che c’è al di là di essa, lì dove lo sguardo è più libero di vedere.

Simone Giampà


 

Arte esatta e geometrie volubili - Manfredo Massironi

a cura di Donatella Giancaspero e Sergio Pandolfini

dal 5 ottobre - al 3 novembre 2007

Galleria Il bulino, Via Urbana 148 - Roma

 

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