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Gianfranco Giorni: il semplice incanto di una natura materica

Figure arcane nella loro semplicità all’interno di uno dei monumenti più recenti e altisonanti dell’area più antica di Roma: così si presenta la mostra dedicata a Gianfranco Giorni in una delle sale del Complesso del Vittoriano. Queste figure nascono dalle abili mani di uno scultore proveniente da Anghiari, cittadina in provincia di Arezzo che si trova in quella parte d’Italia conosciuta anche come “Alta Valle del Tevere”, area a cavallo tra Toscana ed Umbria in cui il Tevere nasce, quasi flebile ruscello destinato a diventare, nella sua discesa inarrestabile, il grande Tiber sulle cui sponde nasce la “Città Eterna”. Forse è per tale motivo che queste sculture sembrano essere intonate al contesto del centro di Roma più di quanto faccia l’edificio che le accoglie e più in sintonia con il senso di mistero e trascendenza  che le rovine del vicino Foro ci comunicano. Sono figure che esprimono significati antichi attraverso un linguaggio moderno, quasi che sentano la necessità di doversi in qualche modo uniformare alla bianca “macchina da scrivere”che le ospita. Le opere non sono molte, circa una ventina, eppure bastano a darci un quadro completo delle scelte, dei gusti, della sensibilità dell’artista. Sono opere che non impongono superbamente la loro presenza, che non mirano a violare lo sguardo dello spettatore sfuggente, che parlano solo a chi voglia dare ascolto ad un linguaggio muto. Parlare di un linguaggio senza parole nelle arti figurative è espressione quasi retorica, eppure ci sono opere che urlano, altre che bisbigliano: a questo secondo gruppo appartengono le creature di Giorni, creature che parlano attraverso categorie sonore o musicali, ma sottintendendole. Che la musica sia sottesa alle numerose rappresentazioni di suonatrici è evidente, ad esempio, in Suonatrice di mandola (1985) o nella Suonatrice di violoncello (2004); ma la sonorità esiste anche nelle figure di Bambini che giocano (2004) o in Luca e il colombo (2000), di cui vengono “materialmente” rappresentate le urla festanti di gioia e stupore. Stesso discorso per lo splendido bassorilievo policromo che ci presenta La Resurrezione, in cui l’urlo di dolore delle donne che scoprono vacante il sepolcro del Cristo si ingigantisce fino a diventare non sonoro. Figure umili, protagoniste di piccoli eventi quotidiani o, all’opposto, di eventi cardine per la storia dell’Umanità, si intrecciano e confondono, plasmate da un’unica mano attenta che indugia su di esse con un chiaro amore per la forma e la materia.  Un amore che è antico e moderno al tempo stesso, che si rifà alle correnti più famose dell’arte plastica novecentesca, da de Chirico a Brancusi o ancora Picasso, senza abbandonare mai del tutto quella natura naturans, natura formata e formatrice, da cui l’opera d’arte trae origine e fondamento. E Giorni, al contrario degli artisti citati, non annulla mai questo confronto continuo con la realtà, come è facile notare in una delle sue opere più belle ed emblematiche: la Porta bronzea (2007) del Museo d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo, di cui è presente in mostra una copia in terracotta policroma. Nel pannello di sinistra le figure femminili delle suonatrici, descritte attraverso poche linee e sinteticamente prive di occhi come i manichini dechirichiani, hanno tutte e dieci le dita delle mani ben in evidenza, quasi come se esse fossero incarnazione reale, “naturale” della musica, che ha bisogno di mani che la eseguano e non di occhi che la contemplino. La parte destra, invece, si presenta come una autocitazione che l’artista fa di due opere realizzate precedentemente e entrambe presenti in mostra: la figura all’estrema destra altro non è che La Malinconia, mentre l’albero con i due colombi dorati, a sinistra, ricorda il Colombo sul ramo (2004). Sappiamo che questo volatile in fiberglass e oro si trovava su un vero albero all’interno del giardino che circonda l’atelier in cui l’artista plasma le sue opere, che è, del resto, l’habitat della quasi totalità delle sue creazioni. La porta bronzea sembra essere, dunque, la rappresentazione che l’artista fa delle sue stesse opere nel suo stesso atelier e alla cittadina medievale di Anghiari sembra alludere il gruppo di caseggiati e le mura sullo sfondo. Il mondo dell’arte si fonde e confonde con quello della realtà in questo pannello, come accade anche nell’atelier dell’artista, vero e proprio museo a cielo aperto in località Acqua Viola. Mi sembra, dunque, oltremodo significativo che i curatori abbiano ritenuto importante riproporre ancora una volta tale binomio presentandoci in un ambiente museale, all’opposto, un’allusione di natura, con quel ramo d’albero che sembra sorgere direttamente dal muro bianco di fondo e su cui trova riposo il grazioso colombo. Giorni non rinuncia mai alla natura, nonostante il suo sia un linguaggio moderno e aggiornato, e questo rappresenta senz’altro la sua cifra più intima e personale, insieme all’insaziabile volontà di sperimentazione materica che lo porta ad utilizzare in maniera paritetica legno, terracotta, bronzo, cemento armato. Apprezzabile anche il lavoro dei curatori, che hanno pensato bene di porre le opere su sottili colonnine in modo che vi si possa girare attorno, proprio come sarebbe successo se le avessimo incontrate ad Anghiari piuttosto che a Roma. E invece questo lembo di “natura formata” si trova in uno dei punti più caotici della capitale e bisogna ringraziare la sensibilità degli organizzatori che hanno scovato questo mondo incantato e ci hanno permesso di assaporarlo, intatto, in una Roma sempre più nevrotica e “difficile”, in quanto è oltremodo importante che venga dato spazio e meritata visibilità a nuovi artisti che, come Giorni, hanno ancora la capacità di stupirsi e divertirsi facendo arte, di stupire e divertire il pubblico, con la forza di un messaggio positivo che fa bene all’anima e non solo agli occhi.

Tania De Nile


Gianfranco Giorni. Sculture

a cura di Alessandra Giannini e Saverio Verini

dal 21 novembre al 9 dicembre 2007

Complesso del Vittoriano, Via di San Pietro in Carcere - Roma


 

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