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Pop Art 1956-1968

Partiamo dal presupposto che organizzare una retrospettiva così ampia comporta dei rischi “congeniti”. Ed è chiaro che un potenziale visitatore che conosca poco o nulla delle vicende che riguardano Hamilton, Warhol e compagnia bella, uscirebbe senz’altro dalla mostra con la pancia piena dopo una tale abbuffata di opere.Non mi par poco, per una mostra: e ciò basterebbe a valutare in maniera più che sufficiente l’esposizione. Ma, però…“Ma però” non si dice, come insegnano alle elementari, tuttavia qualche considerazione sulla mostra va comunque fatta. Forse le perplessità nascono dall’altisonanza delle premesse, evidente fin dal titolo della mostra delle Scuderie: “Pop Art 1956-1968”. Se da una parte risulta felice la scelta di inserire artisti certamente non di prima fascia come Richard Artschwager, Evelyn Axell, Derek Boshier, Oyvind Fahlstrom, Lazlo Lakner, Peter Stampfli e il folto gruppo di francesi legati al Nouveau Realisme (oltre ai capofila Arman e Martial Raysse spuntano i meno noti - almeno in Italia - Claude Gilli, Alain Jacquet, Jacques Monory, Bernard Rancillac), dall’altra le opere esposte risultano tante, pure troppe, e si ha l’impressione che non aggiungano nulla a quanto già si presume di sapere in ambito “Pop”. La presenza di artisti quali Mel Ramos (in particolare il dipinto “Virnaburger” del 1965, che mostra una giovane Virna Lisi desnuda seduta su un hamburger: così kitsch da far rabbrividire), Errò, Harold Stevenson, risulta davvero superflua, ridondante. Anche perché, né a livello stilistico, né a livello tematico sembrano suggerire spunti interessanti. A proposito di temi, da segnalare la pessima divisione delle sale in generiche macro-sezioni, "oggetti del desiderio", "la società dello spettacolo", "la seduzione del corpo", "cultura d'elite e cultura popolare": una divisione banale, quasi grottesca. A far da contrappeso alla presenza di artisti dei quali non si sarebbe sentita la mancanza, l’assenza di lavori significativi di Robert Rauschemberg e Jasper Johns (incomprensibilmente snobbati dal curatore) il cui contributo alle vicende della “Pop” fu determinante. Giustamente celebrati gli inglesi Hamilton e Blake, al pari del solito Warhol; per fortuna il peso della Gran Bretagna (terra dove nacque e si sviluppò la Pop Art) è ampiamente riconosciuto da Guadagnini (a cura del quale è pure l’esauriente catalogo) che ha selezionato anche lavori degli “albionici” Eduardo Paolozzi, Derek Boshier, Patrick Caulfield, Anthony Donaldson, Peter Phillips, Gerald Laing, Allen Jones, Joe Tilson. Ampio spazio per un mostro sacro come Roy Lichstein, ma anche Claes Oldenburg e le sue sculture molli ed afflosciate trovano degna rappresentazione. Nonostante le due sole opere esposte (persino Tilson ne ha tre!) l’americano Tom Wesselmann salta all’occhio per la capacità di sintetizzare lo spirito corrosivo e raffinato della “british Pop” (citazionismo, ironia) ed alcuni elementi peculiari della cultura Pop statunitense (colori accesi, attenzione morbosa alla figura femminile, contenuti maggiormente espliciti): tutti aspetti che si ritrovano nel bellissimo “Great american nude No. 52” (1963) e nel “Great american nude No. 55” (1964) dove il riferimento omaggiante ai celebri dipinti di nudo di Tiziano, Goya, Manet e Matisse è palese. Stando ai lavori presenti in mostra, Wesselmann è sicuramente uno degli esponenti più rappresentativi della Pop Art. Significativa ma un po’ sparuta la presenza degli italiani: mancano all’appello protagonisti come Domenico Gnoli, Valerio Adami, Cesare Tacchi, Armando Testa ed avrei inserito (ma la questione prestiti è sempre delicata) il capolavoro “Futurismo rivisitato a colori” (1965) di Schifano, e qualcosa di più rappresentativo nella produzione di Pino Pascali rispetto al pur interessante “Torso di negra” (1964-1965). Per gusto personale non mi sarebbe dispiaciuto trovare in mostra Manzoni (serialità, uso di oggetti banali e comuni sono caratteristiche a lui proprie); azzardo pure un Giulio Paolini ma saremmo andati al di là della consegna 1956-1968 ed avremmo sconfinato nel concettuale. Anche se di fronte a “Pyramide” (1966) di Gerhard Richter (ma cosa c’azzecca?) siamo autorizzati a proporre i più svariati accostamenti fra Pop Art e un qualsivoglia artista del medesimo periodo. All’interno di un’esposizione rivedibile ma comunque positiva (grazie anche alla magnificenza ed alla versatilità degli spazi delle Scuderie), il difetto di fondo di Pop Art 1956-1968  sta nell’incapacità di suscitare problematiche nuove e  porre punti di vista inediti su un movimento così ampiamente esplorato da migliaia di mostre in tutto il mondo. Personalmente, avrei puntato più sullo specifico, magari concentrando l’attenzione su singoli momenti (l’ “avanguardia pop” 1956-1962, specie in Inghilterra ) e produzioni caratteristiche di certe aree geografiche (una bella retrospettiva sulla Pop italiana meriterebbe senz’altro d’essere organizzata): avrebbero reso più efficace ed affascinante il percorso espositivo. Ma si sa, una mostra di sicuro richiamo è meglio di una mostra dall’esito incerto. Le Scuderie hanno il merito di aver sempre trovato un ottimo compromesso fra necessità di batter cassa e tentativo di sperimentazione e ricerca (“La reciproca meraviglia”, “Burri. Gli artisti e la materia 1945-2004”, “Cina. Nascita di un impero”, ma anche le autorevoli “Antonello da Messina” e “Durer e l’Italia” ne sono mirabili esempi); da questo punto di vista “Pop Art 1956-1968” appare un passo indietro. Il movimento Pop è secondo solo agli impressionisti per numero di mostre allestite in giro per l’Europa e l’Italia; Warhol ha una fondazione, una galleria, una mostra, un museo, a lui dedicati in ogni grande città occidentale. A causa di questa  – appunto –  popolarità esercitano un grande appeal sul pubblico.  Ma non sarebbe ora di trattare la Pop Art come una corrente complessa, ponendo accostamenti inediti, mettendone in discussione i punti fermi, facendo risaltare nuovi elementi di valutazione, piuttosto che usarla come spunto per dar vita a mostre “buone per tutte le stagioni”?

Saverio Verini


Pop Art 1956-1968

a cura di Walter Guadagnini

Scuderie del Quirinale, Via XXIV maggio 16 - Roma

dal 26 ottobre 2007 al 27 gennaio 2008

www.scuderiequirinale.it

 

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