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Performatività diffU.S.A. - Down the streets

La spinta artistica dei grandi centri statunitensi – New York, San Francisco, Los Angeles –  non proviene solo dai musei o dalle gallerie. Come in ogni luogo dove c'è vera esigenza espressiva, l'arte più genuina e spontanea emerge in strada: nei comportamenti della gente, nell'espressività, nelle conversazioni. L'arte “in strada” – più che arte “di strada” – non si manifesta tanto attraverso graffiti e installazioni inaspettate come, per esempio, a Berlino. C'è meno arte visiva e più senso della “performance”. Ogni passante ha dettagli che possono destare interesse, dall'abbigliamento alla mimica; e quando non è la presenza fisica a caratterizzare il personaggio, interviene allora un'incredibile capacità comunicativa, fatta di esclamazioni, espansività, prontezza di battute. Quasi fossero (fossimo?) tutti al centro di una monumentale performance collettiva, all'interno della quale si pụ essere sempre chiamati in causa. Sembrerà assurdo, forse cinico, ma una delle figure chiave di questa messa in scena è il barbone. Soprattutto a San Francisco, popolata di homeless, perdigiorno e sciroccati d'ogni sorta, coloro che trascorrono gran parte del proprio tempo per strada mettono in moto processi creativi unici per catturare l'attenzione e guadagnare quel quarto di dollaro che – un po' più tristemente – serve a concedersi la prossima birra in lattina. Tuttavia, a differenza dei disperati che si vedono dalle nostre parti, gli homeless statunitensi non sono “hopeless” e sembrano darsi da fare con gli unici mezzi a disposizione, fantasia e ironia, ergendosi coś a tutori dell'umore pubblico: goffi travestimenti da pescatore per lanciare l'amo verso il passante, cartelli con improbabili richieste di elemosina (“fuck you, give me one dollar”, “why lie? One dollar for a beer”, e il masochista “hit me with a quarter of dollar!”), scenette improvvisate, richiami a gran voce, sorrisi a 32 denti (anche se raramente li hanno tutti). La capacità espressiva statunitense trova la sua massima realizzazione nelle sfide di breakdance, la danza della cultura hip-hop. Si tratta di vere e proprie gare fra gruppi distinti (le “crew”) che, su base musicale rap, si affrontano fisicamente, ma anche verbalmente: sguardi provocatori ai “rivali”, prese in giro, sorrisi beffardi, incitazioni, ma alla fine tutto si risolve in un sostanziale pareggio, sancito da una serie interminabile di “batti cinque” fra i competitori. Un cerimoniale imperdibile. Un capitolo a parte meritano i murales; Manhattan, coś come la metro che l'attraversa è stata interamente ripulita; per ammirare i migliori graffiti bisogna spingersi verso Brooklyn, Queens, Bronx ed altre zone decentrate rispetto all'egemone isola, sede delle principali attività della città. A San Francisco il muralismo assume i contorni di vera e propria arte pubblica, specie nella zona a sud-ovest del centro californiano: là è un proliferare di dipinti murali “legali”, o comunque accettati senza problemi dalla popolazione, spesso rappresentativi delle origini e delle tradizioni ispaniche di buona parte della stessa. La differenza fra le due “scuole” è proprio nella possibilità di “riconoscimento”: i murales di San Francisco sono prevalentemente figurativi e comprensibili da tutti, integrandosi con l'architettura e dialogando con la comunità; quelli di New York invece si basano sul puro writing, per definizione autoreferenziale ed ermetico. Entrambe espressioni di una tendenza complessa, meritano attenzione proprio per i tratti distintivi che li caratterizzano. L'imprevedibilità attraverso cui l'umana espressività si manifesta in queste città è qualcosa di coinvolgente e irresistibile. Bisogna esser pronti, perché pụ sempre accadere qualcosa, a partire dalla camera d'hotel in cui si alloggia (non è da escludere che sia opera di un artista). Per quanto mi riguarda, non sono sicuro d'essere pronto a questa “quotidiana straordinarietà”.

Saverio Verini

 

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