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Mapping the Studio - Punta della Dogana

Inaugurata in contemporanea alla 53 Biennale di Venezia, Mapping The studio da evento collaterale sembra essersi ben presto conquistato la fama di “antibiennale” per qualità e magniloquenza: trecento opere dislocate in due sedi espositive.  Anche se, pur non volendo azzardare paragoni forzati, probabilmente con la biennale di Birnbaum questa mostra sembra condividere la stessa esaltazione del processo creativo artistico;  Mapping The studio   cerca, a detta dei curatori Francesco Bonami e Alison Gingeras, di ripercorrere le fasi dell’opera d’arte dalla sfera intima dell’artista (il suo studio) fino all’esposizione in uno spazio pubblico, passando per il collezionismo privato; ma il concept (così come il titolo preso in prestito da un’opera di Naumann) appare alla fine forse più un pretesto per “mappare” e celebrare la sconfinata collezione d’arte contemporanea del magnate François Pinault, delegando alle patinate pagine del catalogo una miglior riflessione sull’argomento (guardatevi il report con una breve intervista a Bonami e forse capirete meglio il “calderone di intenti”).

La parte più interessante della mostra è senz’altro la sezione ospitata a Punta della Dogana, protagonista di un doppio miracolo: quello del restauro - in tempi record - ad opera dell’architetto Tadao Ando, già autore del restyling di Palazzo Grassi; quello dell’allestimento espositivo nel quale il dialogo tra architettura ed artisti di diverse generazioni è sorprendentemente simbiotico; i curatori, in un’intervista rilasciata all’interno della miniguida edita per l’occasione (un buon compromesso in confronto al peso economico e materiale della guida completa) affermano di essersi riallacciati a quella sensibilità rinascimentale dove “(…) le tele dei grandi maestri, nelle chiese, erano inquadrate da cornici dorate, da vetrate, da candele…senza peraltro soffrirne”. Paragone forse esagerato, ma anche in questo caso se non proprio di grandi maestri si parla pur sempre di vere e proprie star dell’arte contemporanea; e nonostante si cerchi di sottolineare la presenza di artisti meno conosciuti come Hughes o Grotjahn, la sensazione che si ha entrando a Punta della Dogana è di esser capitati in un vero e proprio “sancta sanctorum” dell’arte contemporanea. La selezione dei lavori è comunque strepitosa, a cominciare da  Fucking Hell   dei fratelli Chapman, o  Kandors Full Set   di Mike Kelley, o la straordinaria serie di grandi quadri traslucidi di Sigmar Polke (Axial Age); e proprio nella sala dedicata al grande artista tedesco si nota un piacevole dettaglio: il retro di uno dei lavori svolge anche la funzione di parete separatoria con la sala dedicata a Murakami. Il restauro di Ando ripristina con sapienza le forme originarie dell’ex magazzino, portando alla luce la semplicità geometrica degli spazi, le originarie pareti a mattoni e le capriate, coniugando nel presente un sodalizio con il passato attraverso l’uso di materiali come il vetro, l’alluminio ed il cemento armato, per Ando “il marmo del XX secolo” con il quale crea una galleria centrale, cuore dell’edificio, dove sono esposti quattro lavori monocromatici di Rudolf Stigler. Altri accostamenti riusciti, non tanto come confronto generazionale quanto per impatto estetico ed emozionale sono quelli tra Cattelan e Sugimoto: le sagome coricate avvolte da lenzuola bianche scolpite nel marmo di Carrara (All), uno dei lavori forse meno irriverenti e più meditativi dell’artista padovano, scandiscono orizzontalmente lo spazio in sincronia con la serie fotografica di Sugimoto  Stylized Sculture   che mostra “manichini umani” altrettanto freddi ma decisalemte più impersonali. Anche i lavori di Robert Gober (Male and Female Genital Wallpaper) e Lee Lozano (No Title) sono letteralmente sovrapposti, evidenziando le affinità ed i rimandi di un’iconografia sessuale esplicita ed inquietante. Qualche perplessità lascia la sala dedicata interamente a Charles Ray, una sorta di miniretrospettiva con una serie di lavori che forse troppo forzatamente si vogliono collegare al paesaggio lagunare (personalmente, non ho trovato molto convincente la presunta corrispondenza tra il bassorilievo  Light From The Left   e la palladiana Chiesa di San Giorgio Maggiore che si scorge in lontananza, dalla finestra…).  Un omaggio più esplicito è dato dalla statua commissionata a Rey per l’inaugurazione dell’edifico, che compare ovunque a simbolo della mostra:  Boy with Frog, una reinterpretazione del David di Donatello, raffigura un giovane che ha catturato una rana, simbolo della laguna; ma più che un omaggio, l’opera appare più come una vera e propria autocelebrazione della Fondazione: un simbolo sulla punta estrema dell’isola, in segno della nuova conquista di Pinault.  Due consigli: il primo piacevole, il secondo decisamente meno; lungo la rampa di scale per salire al Torrino, il belvedere dell’edificio, fate attenzione all’impalpabile opera di David Hammons  Concerto x 2, una commistione indefinibile e delicata di odori percepita soltanto avvicinandosi alla finestra. L’altro consiglio è quello di avere pazienza: verso la dubbia gentilezza del personale (mi auguro solo di esser stata “accidentalmente sfortunata”), ma soprattutto verso l’esorbitanza dei prezzi, davvero ingiustificata.

Valentina Fiore


Mapping the Studio: Artists from the Franηois Pinault Collection

a cura di Francesco Bonami ed Alison Gingeras

dal 4 giugno 2009 al 28 febbraio 2010

Centro d’Arte Contemporanea Punta della Dogana - Venezia

www.palazzograssi.it

 

 

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