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Arsenale.09

Finalmente, dopo almeno due edizioni coś coś, un Arsenale che non lascia dubbi. Per definizione spazio a disposizione del curatore di turno, l'Arsenale è il luogo dedicato all'approfondimento del tema che di volta in volta viene scelto. Apro una parentesi: non sono tra coloro che ritengono che il titolo sia un vincolo. Credo che la Biennale sia piuttosto un modo per fare il punto della situazione sull'arte fra un biennio e l'altro, non semplicemente una mostra su un dato argomento. Certo, la coerenza di fondo è auspicabile, e il titolo serve in questo senso a dettare una linea guida; in ogni caso, da qualsiasi punto di vista si voglia vederla, mai come quest'anno ammetto di aver riscontrato un'adesione coś alta fra opere e tema dell'edizione. “Fare mondi”: un titolo tutto sommato comprensibile e motivato, pur nella tradizionale vaghezza che ne regola la scelta. La formula allude ad un'arte che crea, che si fa spazio fisico e al tempo stesso portatrice di una visione del mondo individuale da parte dell'artista, in opposizione alla “tendenza omogeneizzante che comporta un livellamento delle diversità culturali e trasforma il mondo in un luogo di monotona uniformità”; questo almeno è cị che dichiara apertamente nell'introduzione il direttore Daniel Birnbaum. Molti dunque gli ambienti (i “mondi” per eccellenza, praticabili ed esperibili) e i lavori di grande impatto, capaci di costituire nel modo più diretto un invito al fare e all'agire per il pubblico. Non mancano tuttavia opere in scala ridotta (tele e dipinti), a testimonianza che “ il fare ruota attorno all'idea di costruire qualcosa in comune, qualcosa che sia possibile condividere  ” (Birnbaum), al di là della complessità degli strumenti messi in gioco. Ma, cosa più importante, ho rivisto finalmente opere potenti, che parlano al di là di didascalie e temi scelti. Lavori che trovano giustificazione senza bisogno di testi introduttivi e che si impongono per la sola presenza (che, non dimentichiamolo, credo sia un parametro non da poco nella Biennale “d'arti visive”). Opere la cui lettura e presenza è leggibile al di là dell'intervento di contestualizzazione del curatore. Per fare un bilancio, la Biennale numero 53 presenta alcuni aspetti salienti che mi sento di riassumere così: – la sempre più spiccata propensione delle arti visive ad inglobare e prendere spunto da altre forme espressive (teatro, danza, musica, cinema). In particolare, trova conferma la distinzione, sempre meno marcata, fra architettura e arti visive. – l'interazione come costante: ambienti percorribili, completamento dell'opera da parte dello spettatore, messa in ballo delle convinzioni personali (a partire dalle percezioni sensoriali). A volte ai limiti del gioco d'intrattenimento. –  attenzione alla natura e alla componente verde dell'arte; forse una testimonianza di quanto ci sia bisogno di ripensare il nostro approccio al consumo e al rispetto della terra (riscontrabile anche nei padiglioni ai Giardini). – il “ritorno dell'artista”, inteso come creatore e artefice materiale dell'opera; non molti, ma senz'altro esaltanti i casi in cui la presenza o il passaggio dell'artista segna il territorio circostante (Pistoletto su tutti). Anche alla luce di questo fatto si spiega una partecipazione meno invadente (e di maggior qualità) dei contributi video.  Immancabile dunque, a margine di queste considerazioni, il “classificone” delle migliori cose.  – “Acciones en casa”, di David Bestué e Marc Vives (Spagna): un video spassoso e profondo al tempo stesso; il duo “pasticcione” Bestué/Vives elegge le mura domestiche a teatro di una serie di azioni banali e quotidiane, ma cariche di un'ironia irresistibile. Girare per casa in mutande, andare al bagno, ascoltare musica, prepararsi un pranzo: gesti apparentemente semplici diventano spunti per ridere ed invitare al “fare” anche chi osserva il video, proponendo una dimensione “casalinga” dell'arte. Gli esercizi domestici di Bestué e Vives dimostrano che anche negli spazi più “scontati” (la propria casa) pụ esserci spazio per la creatività, facendo proprio un atteggiamento neosituazionista. Ma “Acciones en casa” serve anche a riflettere sullo stato dell'arte oggi, dove l'idea di interazione e di “invito alla creazione” (della serie “se lo faccio io puoi farlo anche tu”) è diventata una vera e propria costante; in più, la qualità “sporca” del video e la semplicità del montaggio esprimono un'adesione evidente ed omaggiante ad una delle pratiche più diffuse della contemporaneità, quella di realizzare filmati “fai da te” (You Tube docet). Il video rappresenta anche una nemmeno troppo velata frecciata all'autoreferenzialità di certa arte del '900: fra le azioni proposte dai due, vi sono anche dei gesti che ironizzano sul minimalismo (mentre pranzano, una scultura nel mezzo della tavola, simile agli “ Stacks  ” di Donald Judd, impedisce loro di conversare e passarsi i condimenti. Titolo della scena: “Minimalismo incomodo en mesa”), sulla “pesantezza” e sulla gravità di Bruce Nauman (“El viejo Bruce Nauman”), sulla forzatura di performance dadaiste con le quali infastidiscono gli annoiati ospiti (“Dada Show Phonetics ”). Coś Bestué e Vives finiscono per interpretare meglio di cento saggi le perplessità di tanti utenti “medi” che si avvicinano all'arte, ma anche di non pochi addetti ai lavori, stanchi di forzature francamente patetiche. A valorizzare ulteriormente il lavoro del duo spagnolo, il confronto con un altro video collocato a pochi metri di distanza, “ Installation with coloured curtains and 16 mm film  ”, di Ulla Von Brandenburg: un'opera a mio avviso noiosa e quasi “parodistica”, nello stile del film indipendente girato dal beone Barney Gambles in una memorabile puntata dei Simpson, in cui, all'apice del patetismo della pellicola, viene pronunciata dallo stesso Barney la celebre frase “ non piangete per me, sono già morto...  ”. Considerata l'età (siamo ś e no sui 30), Bestué e Vives, novelli Fischli e Weiss, si segnalano come due da tenere d'occhio. E, se fossi uno studente fuori sede, setaccerei tutte le bacheche con avvisi di affitto nel caso fosse possibile prender casa assieme a loro.  – “Gold thread in square forms”, di Lygia Pape (Brasile): è l'opera con cui si apre l'Arsenale, la prima in cui si imbattono gli spettatori della 53° Biennale. Mai scelta fu più azzeccata: si tratta di un lavoro di grande impatto e presenza scenica, pur mantenendo la leggerezza propria di chi vuole evocare e non imporre. Dall'alto della prima sala, verso il centro, convergono degli squarci di luce attraversati da quella polvere – credo sia il pulviscolo – visibile solo se colpita dai raggi luminosi. In realtà, questo effetto coś naturale è ottenuto tramite una costruzione artificiale: i fasci di luce che sembrano filtrare da delle fessure dall'alto non sono altro che dei fili metallici dorati in tensione, sui quali sono puntati dei led capaci di restituire l'effetto “pulviscolo in controluce” (spero di essermi spiegato). Il valore dell'opera della Pape risiede nella capacità di dare un risvolto concreto ad una manifestazione effimera: come riflettere su fenomeni naturali quotidiani attraverso l'arte. Ricordo che nella Biennale del 2005, ad accogliere il visitatore nella stessa postazione dove ora  si trova “ Gold thread in square forms  ”, c'era il kitschissimo “lampadario di assorbenti” di Joana Vasconcelos, per certi versi simile nella struttura, ma diverso nell'orientamento rispetto a “ Gold thread...  ” (femminismo fine a se stesso della Vasconcelos contro carica poetica della Pape): non c'è confronto. 1-0 per Pape, palla al centro.  –    “ Threshold  ”, di Ivàn Navarro (Cile): a Navarro viene concessa un'intera sala all'interno dell'Arsenale, in rappresentanza del suo paese d'origine (oramai gli spazi destinati alle varie nazioni sono sparpagliati ovunque, non solo ai Giardini). Tre le diverse installazioni del cileno: una serie di piccole porte contornate da neon, attaccate le une alle altre e ripetute in serie (a metà fra cabine telefoniche, solarium e vetrine a luci rosse), sigillate ma con un vetro che permette di scorgere un interno buio, inaccessibile e apparentemente senza fondo; un “pozzo” che riflette all'infinito la scritta “ bed  ”, ancora composta grazie al neon; un video che vede protagonista un ciclista con una sedia attaccata alla parte posteriore del mezzo in giro per Times Square (a New York), che con la sua pedalata attiva l'illuminazione della sedia costituita da tubi fluorescenti; al filmato è associata una bicicletta presente in sala (la stessa del video, si presume). Il filo rosso che unisce i lavori è costituito dall'insistenza sulle fonti luminose artificiali; ma un'altra costante è costituita dall'utilizzo degli specchi che amplificano ed estendono le opere (gli effetti “senza fondo” del pozzo e delle porte sono ottenuti tramite giochi di riflessi). Difficile la decifrazione delle tre installazioni, coś come stabilire delle relazioni fra loro; tuttavia l'opera di Navarro, nell'insieme, è uno degli interventi di maggior impatto dell'Arsenale.  – “ Constellation no. 3  ”, di Chu Yun (Cina): un ambiente oscurato al quale si accede superando una tendina: all'interno un buio quasi totale, spezzato da alcune fioche luci sparse nella stanza. Man mano che la vista si abitua, le luci prendono vigore, fino a formare una vera e propria costellazione; alla fine, quando l'occhio si adatta all'oscurità, ci si rende conto che le “stelline” altro non sono che le spie degli elettrodomestici che teniamo in casa, dal computer al telefonino sotto carica, passando per la televisione. Anche in questo, la cinese Yun Chu ricorre a delle luci artificiali con l'intento spiazzare il visitatore, in un efficace gioco di scambio fra naturale e artificiale.  – “Sala degli Specchi”, di Michelangelo Pistoletto (Italia): secondo in ordine di apparizione dopo la strepitosa Pape, l'intervento di Pistoletto è l'emblema di quel “ritorno dell'artista” di cui parlavo precedentemente. Un'opera che “spacca”, in tutti i sensi: la sala infatti si presenta con una quindicina di specchi di grandi dimensioni disposti su tutte quattro le pareti, infranti da sciagurata mano. Di chi sarà la colpa? Dello stesso Pistoletto, che del ricorso alle superfici riflettenti ha fatto una cifra stilistica personale. Questa volta l'artista italiano sembra voler chiudere i conti con il supporto tanto amato, e coś, durante l'inaugurazione, ha rotto tutti gli specchi a colpi di martello nel corso di una performance di grande effetto. Solo due le superfici risparmiate, schierate frontalmente: il visitatore che si piazzerà nel mezzo dei due specchi potrà coś cogliere l'infinita riflessione dell'ambiente, segno che, alla fine, lo specchio ha ancora lunga vita. Bello sarebbe stato assistere all'azione di rottura di Pistoletto, ma è comunque coinvolgente essere testimoni di questo paesaggio devastato dalla furia dell'artista.  Dispiace aver tenuto fuori gli interventi di Lara Favaretto e Ceal Floyer (improntati su una “linea verde”), così come i “bastoni sospesi” di Richard Wentworth, capaci di esprimere tanti concetti con il dono della sintesi; ma il giochino prevede delle scelte.  A questo punto vorrei stilare pure una lista degli “sconsigli”, ma esigenze di brevità impediscono di soffermarsi a lungo sugli aspetti negativi. Merita tuttavia una menzione l'orrorifico padiglione italiano: deludente e retrogrado, si allinea perfettamente al (pessimo) gusto nazionale (e in questo senso appare davvero rappresentativo). Costituito da opere fondate su una figuratività scontata e poco poetica, l'omaggio al futurismo dichiarato nelle intenzioni si risolve in un  pout-pourri   di sculture, dipinti e installazioni che sembrano provenire dallo scantinato di un museo d'arte contemporanea di provincia. Da salvare il video dei Masbedo e il ciclo pittorico di Sandro Chia. Tutto il resto è noia. Povero futurismo...

Saverio Verini

 


Biennale Arte 53. Esposizione Internazionale d'Arte Fare Mondi

a cura di Daniel Birnbaum

dal 7 giugno al 22 novembre 2009

Corderie dell'Arsenale - Venezia

www.labiennale.org/it/arte/esposizione/

 

 

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