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L’intensa poesia della vita nell’opera di Publio Muratore

Chiusa da poco alla sala degli Almadiani di Viterbo, la mostra dedicata al pittore Publio Muratore replica a Gallese, incantevole borgo al limite fra le province di Rieti e Viterbo, nonché paese nativo dell’artista.  A dieci anni dalla sua scomparsa, la famiglia, con la collaborazione di Regione Lazio, Provincia di Viterbo, Comune di Gallese e Viterbo, Fondazione Carivit e Monte dei Paschi di Siena, ha organizzato una retrospettiva della vita e delle opere dell’artista dal 1947 al 1997.  Vale la pena, oltre alla mostra, ammirare la cittadina di Gallese, tutta arroccata su uno sperone tufaceo che, oltre ad offrire incantevoli panorami, è ancora intatta nelle sue parti più antiche, e darà modo al visitatore di apprezzare la pittura di Muratore, permettendogli di riconoscere alcuni suoi scorci nelle opere del pittore. Va rimarcata, inoltre, la scelta di affidare l’allestimento e la cura grafica del catalogo a due giovani architetti, Vincenzo Publio Mongiardo e Daniel Salvador Da Silva Leite, affiancati dal critico d’arte Giorgio Felini, che hanno organizzato l’esposizione in maniera pulita ed ordinata, introducendo, con una scelta coraggiosa, dei pannelli blu: si potrebbe pensare che siano un po’ azzardati, invece risultano ben accordati alle tonalità predilette del pittore e ci accompagnano “sottovoce” lungo il percorso.   Una “Sacra Famiglia”, bozzetto preparatorio di un affresco che Publio realizẓ in una chiesa di Gallese, ci introduce all’interno dello spazio espositivo. La scelta di aprire la mostra con questo disegno è particolarmente riuscita poiché mette in risalto, oltre all’interesse e alla conoscenza che l’artista aveva per i canoni classici, la sua qualità tecnica, manifestata attraverso i virtuosi panneggi e le armoniose modulazioni chiaroscurali. Si intuisce, già da questa prima opera, quanto Muratore fosse un abile disegnatore e quale importanza avesse per lui il segno grafico, tanto che a volte, i bozzetti, freschi e di grande immediatezza, hanno una forza tale da poter essere equiparati ad opere finite.  Seguono una serie di quadri dai soggetti diversificati, che spaziano tra paesaggi rurali, nature morte e ritratti: fra questi spicca “lamentazione”, opera del ’57, dove emergono, come sagome estrapolate da uno spazio asettico, quattro donne raccolte attorno al defunto, del cui corpo è visibile solo la mano. Cị che rende tanto interessante questo quadro, oltre al soggetto e alla composizione, è l’impatto tonale: infatti si ha come l’impressione che il colore si voglia far cercare, che ci si trovi davanti ad un’opera monocromatica mentre, osservando con maggior attenzione gli scialli delle donne, si scoprono colori dalle tinte forti, come il rosso ed il blu, il verde e il turchese… ed ecco che quelle stesse donne, apparentemente tutte uguali negli abiti e nello stato d’animo, si diversificano mostrando la loro unicità di fronte all’osservatore e di fronte alla morte. C’è in quest’opera un inedito “realismo espressionista”, di sapore nordico, ma al tempo stesso la tradizione italiana, che rimanda alla pittura dei Macchiaioli.   Proseguendo all’interno dell’esposizione il ritmo cresce, incalzante, raggiungendo il suo apice in una serie di opere di grande intensità cromatica e tensione emotiva: “Solitudini” e “Il sogno”. La prima si distingue per la sua malinconia, accentuata dai blu e dai grigi cupi e profondi, e per la sua drammaticità, espressa nella potenza dei rossi ed enfatizzata dall’intersecarsi di linee diagonali che creano un senso di vertigine. L’altra è una tela di estrema delicatezza, che rappresenta un nudo di donna, sognante, ammaliante, riguardosamente coperta dalla trasparenza di un velo. Si potrebbe intendere la mano, dolcemente adagiata sul ventre, come un rimando alla maternità, se non fosse per il fondo rosso che esprime piuttosto la passionalità, creando coś un’equilibrata sintesi di innocente e peccaminoso, di apollineo e dionisiaco, di classico e romantico. All’altezza di questi due lavori ci sono altre tele, purtroppo non esposte, che sembrano davvero racchiudere l’io dell’artista, la sua vera essenza, il colore ed il disegno, l’appartenenza e la solitudine, la chiusura e l’apertura, la speranza e la disperazione: stiamo parlando di “Mendicante” e “La tempesta”, ma anche di “Tentazioni”, che ci sorprende per la sua spiccata ironia. In queste opere Muratore dimostra una grande capacità di scelta dei soggetti, provenienti dal suo vissuto personale o dalla vita quotidiana, e li rielabora in forme e tecniche originali, usando l’escamotage di scavare solchi nella pittura, che fanno rassomigliare i quadri a delle vetrate e ne sottolineano il segno grafico. C’è in queste tele una tensione esistenziale che ne rende vivi i protagonisti. La stessa cosa si pụ affermare per “Solidarietà a Tuscania”, un grande dipinto ad olio composto secondo lo schema convenzionale delle deposizioni (vedi Raffaello e Caravaggio per la posizione dei corpi e del braccio), ma che risulta originale per la scelta dei soggetti, di certo non sacri ma celebranti i valori etici e morali della Tuscia, sua terra natia: si tratta infatti di soldati, mandati in aiuto della popolazione dopo il terremoto di Tuscania, intenti a sollevare il corpo di un ragazzo davanti alla disperazione di una madre.  Di elevato livello tecnico e visivo sono anche i suoi paesaggi e scorci, opere dalla “spazialità leopardiana”: con questa espressione si vuole intendere quel processo attraverso il quale, come avviene nella poesia “L’infinito”, qualcosa ci impedisce la vista e allora, laddove non arriva l’occhio, arriva la fantasia, ad immaginare spazi e a schiuderli verso l’immenso; tale criterio determina l’assetto spaziale di molte opere, caratterizzate da prospettive imprecise e deformate, come nel caso di “Chiostro”, oppure dalla presenza di una quinta scenica che copre una parte della tela, come in “Vecchio mercato a Parigi” e “Caffé a Parigi”: in questo modo il pittore ci fissa in un punto ma apre lateralmente l’inquadratura, non descrive i luoghi ma li abbozza, lasciandoci intravedere e non vedere, immaginare e non contemplare. Queste opere, nel loro essere imperfette, ci rendono quindi partecipi della loro natura. Chiudono il percorso alcuni quadri, sacri e profani, di buon livello tecnico ma meno espressivi, salvo alcune notevoli eccezioni come “Barche”, “Primavera”, “Resurrezione” e “La città di notte”: si assiste dunque una variazione fra i quadri della giovinezza e quelli più tardi, che non si pụ certo rimproverare ad un pittore che scompare ormai vecchio e che sembra aver concluso il suo percorso artistico con una raggiunta serenità, mostrata nelle opere attraverso la ricerca di un’umanità, di una bontà nei soggetti, inaspettata per qualcuno che ha vissuto la brutalità del campo di concentramento di Buckenwald.  L’elaborazione formale e tonale dei lavori di Publio Muratore è dunque dettata dall’influenza di diversi stili e tecniche, che vanno da Tiepolo all’espressionismo, unificate da una vena impressionista, sottolineata dall’immediatezza e dalla celerità, sia del tocco pittorico che dell’effetto visivo, con alcune ben riuscite eccezioni, tutte databili fra gli anni ’50 e ’60, che si possono collegare alla corrente espressionista; ma in fondo la sua pittura non si affida solo al colore e alla luce, né alla forma o al segno… semmai al sogno, all’immaginazione, alla fantasia, al saper vedere oltre noi stessi e al saper credere che l’umanità possa di nuovo essere pervasa di compassione…

Antonio Taverna, Valentina Tocci


Publio Muratore, un artista: dalla vita alla storia

a cura di: Vincenzo Publio Mongiardo, Daniel Salvador Da Silva Leite

dal 22 dicembre 2008 all'11 gennaio 2009

Museo Civico di Gallese - Viterbo

 

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