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La scimmia è l’evoluzione dell’uomo

“Ogni essere umano s’accomodi pure all’uscita, grazie”. In buona sostanza è questo l’invito che sembra dipingere l’israeliano Gilad Efrat; una pittura fatta di assenza, di scenari scarni, dove non c’è spazio per l’umanità. La Oredaria, galleria inaspettatamente grande che si estende per diversi metri quadrati appena sotto il livello della strada, con le sue pareti bianche e l’illuminazione algida è lo scenario perfetto per accogliere i lavori di Efrat (ma forse questo ambiente coś neutro e flessibile sarebbe adatto per qualsiasi tipo di esposizione; roba da far invidia alla Gagosian di via Crispi). I lavori, appena una decina, sanno guadagnarsi il loro spazio nonostante le dimensioni delle sale: appena discesi i gradini che conducono all’interno della galleria, un ciclo pittorico a sé stante introduce al mondo di Efrat. Sono quattro ritratti di scimpanzé (dipinti su tele di formato medio) colti in primi piani di un’intensità rara: sguardi vivi, espressioni penetranti, attributi che paiono più pertinenti ad un uomo. La definizione dei volti è quasi naturalista, ma la pennellata è vivace, fa avvertire il tocco dell’artista; un tratto che ricorda le densità dell’espressionismo senza scivolare verso tentazioni deformanti. Il secondo gruppo di lavori, distante per stile e soggetto dal primo, presenta dei paesaggi lunari nei quali il colore è sottratto, ridotto ad un’alternanza di grigio e nero; le due tinte si sfidano per la supremazia all’interno dei dipinti rubandosi reciprocamente centimetri di tela, ma alla fine si integrano alla perfezione, creando un effetto quasi fotografico. Efrat affronta lo stesso brano paesaggistico in altri tre dipinti, introducendo una variazione cromatica, il rosso. Ma si tratta di poche tracce: un rosso troppo “sporco” e attenuato per essere vitale, un rosso che non scalda, ma al contrario enfatizza la desolazione, dalla quale emerge un solo elemento riconducibile all’uomo, le impronte di una scarpa impresse sul terreno. L’ultima opera, ennesimo scenario asettico, presenta una sorta di lager con filo spinato e barriere architettoniche. Lo sfondo, un celeste cupo che rende cielo e terra un plumbeo tutt’uno, contribuisce a far perdere la già precaria idea di un contatto terreno. Se nei ritratti degli scimpanzé si ritrova parzialmente un’idea di esistenza e di respiro vitale, i paesaggi di Efrat rappresentano non-luoghi, zone senza un briciolo di umanità, dove l’unico sentimento è la negazione dell’emotività. L’unica vera costante nel discorso artistico dell’israeliano è quindi l’assenza dell’uomo. Ma è una privazione talmente tanto insistita da risultare quantomeno sospetta: e se Efrat parlasse dell’uomo attraverso la sua sparizione? Forse è questa l’interpretazione per capire un percorso che, attraverso ambientazioni enigmatiche e suggestive, conduce in “zone d’ombra” dove l’uomo è stato ma che ora non abita più. Se Efrat fosse un regista avrebbe senz’altro girato film come Dune o Mad Max, pellicole culto degli anni ’80, nelle quali l’umanità è ridotta a vivere in scenari post-atomici (e niente vieta di pensare che l’artista, nato nel ’69, abbia visto i film in questione, rimanendone affascinato). Molto più tristemente, invece, la sua pittura potrebbe far riferimento a situazioni esistenti, come le strisce desertiche a cavallo fra Israele e Palestina, dove da anni – e non solo in questi giorni – si stanno compiendo carneficine. Ecco, a volte l’uomo riesce ad esprimere meglio la propria umanità mediante una silente assenza.

Saverio Verini

 


Common Place - Gilad Efrat

a cura della Galleria Oredaria

dal 9 dicembre 2008 al 21 febbraio 2009

Galleria Oredaria, via Reggio Emilia 22-24 - Roma

www.oredaria.it

 

 

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