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Manifesta7 - Trento e Bolzano (parte I)

Esiste un bel contrasto tra le due sezioni di Trento e Bolzano: la prima, con una impalcatura teorica pretenziosa ma non sufficientemente sostenuta dall’approccio curatoriale; la seconda invece più lineare, trasparente, ma non per questo meno intelligente. Entrambe cercando di offrire più declinazioni possibili al tema portante propostosi. Entrambe in aperto dialogo con le sedi ospitanti (l’antico Palazzo delle Poste trentino, la ex fabbrica Alumix di Bolzano), edifici in parziale restauro che conservano forti tracce della propria storia, e con i quali si è tentato di comunicare su vari livelli. Trento: sede dello storico Concilio che pose la confessione a suprema forma di controllo e disciplinamento della vita interiore dei fedeli, della loro anima.   "L’anima non è un dato di fatto ma un oggetto culturale, uno spazio creato da idee, pratiche e tecniche di potere"  scrivono i curatori Frenke e Peleg sul catalogo Index (per la gioia degli squattrinati appassionati d’arte la Silvana Editoriale ci propone per questa edizione ben quattro diversi cataloghi!): la mostra presenta un’eterogenea serie di opere che tentano di analizzare, criticare e sovvertire le moltissime modalità attraverso cui il potere esercita controllo sulla vita interiore (mentale ed emotiva) degli individui, premendo soprattutto sull’immaginario collettivo e l’estetica quotidiana. Il bellissimo video “Looking Pretty For God” di Omer Fast presenta in toni surreali il lavoro e le esperienze di ditte che fanno dell’imbalsamazione e delle cerimonie funebri un business a conduzione familiare,  testimoni di come la cultura contemporanea mercifichi la morte ed elabori il passaggio dell’anima ad un’altra (si speri miglior) vita. Anima intesa come vita interiore di un individuo pụ essere relazionata anche al tentativo della società di definirne limiti e normalità: si parla di follia in “A Star Love (Salvatore)” di  Gianluca e Massimiliano De Serio e in “The Museum for Franco Basaglia”  che fa parte di una serie di stimolanti musei in miniatura presenti nella mostra, luoghi (più metaforici che reali) di riflessione e documentazione su differenti forme di controllo dell’individualità, come ad esempio i test sulla personalità, raccolti in un curioso tour di esempi (“The Museum of Projective Personality Testing”). Campi di riflessione interessante, soprattutto se letti sulla carta; e il sottotitolo  "dei molti guai nel trasporto delle anime"  sembra rafforzare quest’impressione. Leggendo il catalogo si viene a sapere che è il titolo di un criptico disegno in cui Ejzenstejn rappresenta una visionaria città capovolta; ed è proprio al mitico regista russo che i due curatori guardano ispirandosi alla sua concezione di “montaggio delle attrazioni”, nel quale l’accostamento di due immagini tra di loro indipendenti o persino incoerenti genera un terzo inedito significato. Il riferimento vale sia per l’allestimento della mostra in sé, sia per la prevalente scelta di opere video (e a questo punto si capisce anche la scelta di opere come quelle di Keren Cytter e Rosalind Nashashibi, in cui è l’intenso lavoro sul montaggio a farla da padrone). Ma è proprio questa scelta a far capovolgere, come nel disegno di Ejzenstejn, la concretezza della mostra che non riesce a coinvolgere lo spettatore perché non gli concede la cosa più importante: esperire, assimilare.  Troppi video, troppo lunghi: non c’è assoluzione per i curatori, colpevoli di aver trasformato un concept potenzialmente stimolante in una mostra senz’anima.  Di un’anima e di molta poesia invece sembra impregnata la mostra che ha sede nella ex fabbrica d’alluminio di Bolzano; l’alluminio non è solo “cị che resta della bauxite”: è cị che viene estratto dalla bauxite, cị che è essenziale e utile.  Ma che fine fanno i residui del processo, gli scarti? L’interrogativo è ben presto metaforizzato ed esteso; scrivono i curatori nel catalogo:  "Il resto dell’ora è il residuo che rimane in sospeso nel cuore della contemporaneità. E’ quello che perdura tra i passaggi della trasformazione e quello che precipita tra le spaccature del tempo (…) è l’eccesso che ci spinge verso la pausa, la memoria e il rallentamento del passo. Ricordare cị che è scomparso (…) costituisce un momento di riflessione per dare un senso alla relazione tra vivere e aver vissuto"</i>. La riflessione parte simbolicamente dall’ingresso dell’edificio, dove ci accoglie l’opera di Harold de Bree, “M1 SS Bailey Bridge” che ricostruisce il frammento del ponte Bailey: la sua trasportabilità permetteva più facilmente di inseguire i nazisti in ritirata; qui è impraticabile e ambiguo, un frammento sospeso sull’acqua che sembra non collegare nulla ma contemporaneamente ci attira verso l’entrata, come un segnale fantasma. E si prosegue all’interno con la riflessione sull’edificio in sé stesso, e di cosa ne rimane dopo anni di abbandono e di restauri avviati: tracce di suoni in “Close Your Eyes!” di Stefano Bernardi; degli “inquilini” delle pareti (le sinuose forme di "The Naked Garden” di Reinhard Kropof & Siv Helene Stangeland appartengono a …muffe); delle pareti in sé stesse prima dei restauri (le sindoni di lattice di Jorge Otero-Pailos, in “The Ethic Of  Dust”). C’è spazio anche per le tracce del quotidiano: l’infra-ordinario sfuggevole e ripetitivo, coś facile a inghiottirsi negli abissi dell’oblio (Anna Faroqhi, “Variation On The Everyday I-III”);  come le fotografie di cronaca di Hansa Tlapliyal, che tenta poeticamente di salvare trasferendole su tela e ricamandone a mano dei dettagli. Ma l’accento è spostato anche su contesti generali, come la monumentale tenda analogica“Slighty Tower” di Zilvinas Kenpinas, composta dai filamenti dei vecchi nastri magnetici per cassette: una memoria estetica su quel che resta di un passato prossimo eppure coś remoto. O come il bellissimo lavoro di Teresa Margolles, “Sudor y Miedo”, minimale, quasi impercettibile, eppure carico di suggestione: una stanza viene umidificata con dell’acqua proveniente da un obitorio di Città del Messico, usata originariamente per lavare i corpi di vittime assassinate; l’artista sembra qui riferirsi ad una forma di oblio più subdola perché incoraggiata da chi tenta a tutti i costi di cancellare le tracce del passato. L’impressione generale è stata che questa mostra esprimesse in sé una grande coerenza e integrità, senza disperdere peṛ la forza delle singole voci; che arrivasse allo spettatore permettendogli un’esperienza più concreta e personale, meno timorosa, come avviene invece sempre più spesso in grandi manifestazioni del genere (penso ad esempio all’ultima documenta). Il paradosso è che la sezione a mio parere più riuscita di questa Manifesta sia stata guidata da un collettivo, i Raqs Media Collective, che prima di essere curatori sono soprattutto artisti; la marcia in più risiede non solo nella differente sensibilità e potenzialità creatività, ma anche credo nella maggiore capacità di dialogare in un progetto senza mettersi un gradino sopra il resto, e gli altri.

Valentina Fiore


Manifesta 7

Hanselm Franke/Hila Peleg (Trento); Raqs Media Collective (Bolzano

dal 17 luglio al 2 novembre 2008

Palazzo delle Poste (Trento); Ex-Alumix (Bolzano)

www.manifesta7.it

 

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