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“Il fremito nella pittura vivente” - Intervista al pittore Marco Filippetti

Incontriamo Marco Filippetti direttamente nel suo studio di Monteverde.  Alcune opere appese, altre poste sul pavimento, lenzuoli e tele che formano quinte spaziali: è il “disordine ordinato” dell’artista che ci accoglie nel suo atelier proprio quando è in preparazione l’ultima opera, quasi in attesa del tocco finale.

D. Marco quali sono state le tue prime esperienze? Quando hai iniziato a dipingere?

R. La pittura è sempre stata per me un ossessione, un’ esigenza quotidiana.  Ho iniziato a dipingere molto presto, da bambino alle scuole elementari già avevo scritto sui quaderni “Marco Filippetti pittore”. La mia è stata un “enfance terrible”, ho fatto dei percorsi non canonici e non accademici, la pittura mi ha consentito di rimanere molto lucido e di affrontare le difficoltà.

D. Come nasce la tua opera pittorica?

R. Sicuramente partendo dal disegno. Oggi siamo nell’era del 3d, ritengo che il compito della pittura sia quello di indagare il rapporto bidimensionale, perché soltanto quest’ultimo è la vera tendenza reale dell’uomo.  Rappresentare su una superficie piatta ci consente di descrivere, e il disegno è per me come la scrittura, vitale per la rappresentazione.

D. Parliamo dello stile e dell’ ideazione: come prendono forma i soggetti delle tue opere?

R. Alterno fasi operative a periodi di gestazione, Il mio filo conduttore è la rivelazione.  La mia ricerca è incentrata sull’osmosi che c’è tra spazio vuoto e spazio vissuto. I soggetti delle mie opere risentono di questo spazio che li avvolge. Quando realizzo un opera esercito una vera e propria azione critica. I miei dipinti devono provare a vivere, devono superare una prova.

D. Cosa si intende per prova?

R. Appena concluso il lavoro, il dipinto rimane sul cavalletto, aspetto un paio di giorni senza vederlo, se poi al primo sguardo mi riesce a dare sensazioni forti allora merita di vivere altrimenti viene distrutto. Ci deve essere una giusta tensione e un equilibrio tra le parti, come nel ritratto di mio figlio Alessandro.

D. Tecnicamente pụ sembrare incompiuto.

R. Si, ma mi riesce a dare quella purezza che desideravo. E’ quella componente che crea maggiore difficoltà di lettura della mia opera.

D. Ma crea quella pulsione vitale che anima il tutto.

R. Certo, dà forza e mistero e in definitiva genera il soggetto.

D. Le tue opere sono parte di un percorso legato o intuizioni autonome?

R. Mi piace lavorare per cicli, per serie, come fosse uno storyboard di un racconto. Le opere appartengono comunque sempre a un percorso.

D. Usi dei modelli?

R. No, a volte utilizzo la macchina fotografica in funzione della pittura. Peṛ sono sempre stato molto attento allo studio dell’anatomia e le mie figure sono quasi dei modelli matematici, quando poi hanno delle sproporzioni sono volute, appositamente ricercate.

D. Tecnicamente come inizi un opera, hai un metodo preciso?

R. Io lavoro molto la superficie, tendo sempre a sporcare la tela, dai movimenti che la materia crea, io li intensifico e li abbasso per dare più profondità al tutto. Con il disegno rivelo gli spazi architettonici e fisici, poi c’è uno strato quasi iperrealista molto definito, che infine viene “decostruito”.  Sono fortemente ancorato al classico per quanto riguarda i processi, sono più anarchico ed espressionista nella composizione.

D. C’è un movimento un artista in particolare che ami o hai amato di più?

R. Michelangelo, Guido Reni, e senza dubbio Bacon, uno degli ultimi grandi classici, sono riferimenti formali importanti per me insieme a Sironi di cui mi colṕ la monumentalità, mentre Fattori per la forza tonale.

D. L’immaginazione, la realtà, il mito: c’è una poetica precisa nella tua opera?

R. Si certo, le evocazioni del mito le richiamo ad esempio nella serie degli Antinoo, coś come l’origine del mondo è presente nelle Tartarughe marine che rimandano alla forma di navicelle spaziali.  Ma è nell’immedesimazione dei soggetti da parte dell’osservatore lo scopo della mia pittura.

D. Arte figurativa o arte astratta: ti senti di aderire ad una visione delle cose da una di queste prospettive o sei totalmente libero e svincolato?

R. Parto da un presupposto: l’uomo non pụ fare a meno di descrivere la natura e se stesso. Abbiamo l’esigenza di antropizzare tutto. L’astratto, cioè la perdita di una leggibilità figurativa, è un falso perché descrive sempre qualcosa.

D. L’artista come genio e sregolatezza?

R. Io non sopporto l’accezione romantica dell’artista del mondo d’oggi, egli ha una sensibilità non migliore degli altri ma diversa e dovrebbe catturare quello che è nella realtà quotidiana, e rivelarlo nella sua tela.  Ecco per me dovrebbe lacerare l’ovvio.

D. Come ti poni di fronte alle problematiche della società? L’arte è davvero diventata una “splendida superfluità”(come disse Hegel) o pụ ancora avere una funzione sociale?

R. Si pụ avere ancora una funzione sociale, anche se sono cambiati i riferimenti storici. Deve essere ancorata al mondo della scuola e dei bambini e per poter avere una funzione deve essere percepita come uno strumento libero di visione del mondo. Io vedo la società come un insieme di singoli individui, e li rappresento nella loro solitudine ma anche nella loro natura più intima e quindi riconoscibile. Noi pittori dovremmo agire, parlare con il futuro della popolazione, insinuare dei dubbi non seminare certezze. Invitare quindi a riflettere.

D. L’artista pụ essere anche parte del processo di mediazione dell’opera?

R. Si assolutamente, ma anche la critica dovrebbe esserlo, dovrebbe aiutare a capire, invece di entrare dentro i “processi di costruzione” dell’opera.  Mentre la didattica dovrebbe essere fatta senza troppe certezze, valorizzando i bambini e la loro libertà creativa. Per questo ho in mente una mostra che presenti le mie ultime opere partendo dalla loro creazione.

D. A tal proposito, spiegaci come nasce l’opera “lei in superficie”?

R. Le linee fanno emergere il soggetto, ma se oscuriamo il viso “lei” diventa un opera astratta, e si perde coś la cognizione dello spazio prospettico. Si chiama “Lei in superficie” e come capirete è fondamentale il rapporto che si viene a creare tra le parole e l’opera in se. Soltanto in questo limbo troviamo la chiave di lettura dell’interpretazione.

D. E’ importante quindi il modo in cui si comunica attraverso la pittura?

R. Certo, cos’è la pittura in fondo? Per me un dialogo, prima di tutto, prima d’essere passione. Un dialogo capace di rinnovarsi ad ogni sguardo, ad ogni vista, … un dialogo che diventa “viaggio di scoperta” verso uno spazio che è al tempo stesso circoscritto e meravigliosamente infinito…la persona. Le emozioni di un momento, grazie alla pittura, non vengono congelate ma restano vive in eterno..per essere “in viaggio (di nuovo)”.

Antonio Taverna

 


Marco Filippetti

atelier via L. Mantegazza 31/a - Roma

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www.myspace.com/artecomevita

 

 

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