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Valerio Berruti. I wish I was special

Gli ultimi lavori di Valerio Berruti esposti all’Ermanno Tedeschi Gallery nascono, come il titolo della mostra suggerisce, dalle suggestioni musicali della mitica Creep, primo singolo pubblicato dalla band inglese dei Radiohead e presente nel loro album di esordio del 1993 Pablo Honey.

Creep, con la malinconia del suo sound e del suo testo, divenne espressione del disagio esistenziale nel quale i giovani si identificarono. Thom Yorke in Creep sembra cantare la storia di un ragazzo che si sente inadeguato ma che vorrebbe con tutto se stesso essere migliore, anzi “speciale”, per conquistare la ragazza “speciale”, alla quale sembra rivolgere le sue lodi. Secondo però le dichiarazioni del cantante, autore del testo, il protagonista del brano non dialoga realmente con la ragazza ma con se stesso, in un momento di ricerca interiore. Ed è da qui che parte la ricerca artistica di Berruti, dalla riflessione sul sé, l’altro da sé, sulla personalità nel momento in cui nasce, si forma, si trasforma prima di raggiungere un assetto stabile e definito. Berruti sviluppa in questi lavori i temi della canzone dei Radiohead: la ricerca della perfezione, il confronto con l’esterno e il tema del doppio.


Senza titolo (2010)

Le suggestioni musicali che guidano l’artista sono ricondotte ad un tema lui caro: l’infanzia, che in questi lavori è indagata come la stagione della vita nella quale ha luogo la genesi della personalità.
A condurlo in questo viaggio a ritroso sono le rappresentazioni di due bambine, forse amiche, forse sorelle, oppure lo sdoppiamento della stessa bambina, che sono rappresentate sempre insieme: giocano, si prendono per mano, stanno vicino l’una all’altra o si allontanano, si osservano o guardano lontano, verso un ipotetico spettatore, come in attesa di risposte.
Le rappresentazioni delle due bambine, quasi identiche nell’aspetto, si ripetono in diverse variazioni ma sono rese sempre nello stesso stile essenziale, tramite un disegno che ne individua i contorni. Le immagini sono minimali, prive di riferimenti spaziali e caratterizzate dalla  sola presenza delle due figure.


Senza titolo (2010)

Due bassorilievi in cemento armato posti sulla parete d’ingresso della galleria aprono la mostra.
Le figure, inginocchiate e con lo sguardo rivolto verso l’alto, sono appena rilevate plasticamente sopra la superficie di cemento, la quale, non del tutto lavorata, mostra la ghiaia di cui è composta al di sotto.
Al centro della sala tre grandi juta dal formato verticale e prive di cornice sono sospese e disposte a semicerchio. Questa tipo di sistemazione fa sì che le opere interagiscano maggiormente con lo spettatore e genera uno spazio ideale in cui raccogliersi nell’osservazione delle immagini affrescate sui tessuti: due bambine, vicine l’una all’altra, che si tengono per mano e guardano verso l’esterno.
In due delle tre juta, oltre alle figure, si trovano ampie campiture di colore che fanno da sfondo. In una la campitura, di colore rosa, è alle spalle delle figure: oltre a dare luce alla composizione, è nella sua astrattezza una sorta di accenno spaziale (una ipotetica finestra di una stanza). Nell’altra la campitura di colore verde, invece, è collocata ai piedi delle due figure e costituisce la loro base di appoggio (un ipotetico tappetino). Nonostante l’inserimento di questi elementi che farebbero pensare ad una volontà di costruzione spaziale non vi è mai una vera e propria contestualizzazione, manca un riferimento preciso ad un luogo o ad una situazione.



Senza titolo (2010)

Ciò che colpisce maggiormente in queste opere è l’abilità dell’artista nello sfruttare al meglio le potenzialità espressive del supporto su cui rappresenta le due figure e il modo in cui le caratteristiche materiche e coloristiche dello stesso entrano a far parte della composizione.
Sulla parete sinistra della sala campeggiano sei piccoli disegni a pennarello su carta bianca forata, dotati di cornice. Il foglio forato è quello dei quaderni ad anelli. Le piccole misure del foglio e l’utilizzo di strumenti e supporti scolastici rimandano all’appunto, allo schizzo, anche se poi il risultato è tutt’altro che scontato. In questi piccoli e raffinati disegni Berruti dimostra le sue grandi abilità tecniche-espressive a confronto con spazi limitati. Le figure assumono forse una dimensione più simbolica e astratta: alcune parti del corpo non sono disegnate e alcuni contorni sono volutamente lasciati aperti così da includere il bianco della carta.
Sei pastelli a olio su craft, di dimensioni più piccole rispetto alle opere su juta e più grandi rispetto ai disegni su carta bianca, campeggiano, all’interno di cornici, nell’altra parete della sala. La cornice restituisce alle opere, appese in modo tradizionale al muro, la dimensione tipica del quadro e ristabilisce una distanza fisica con lo spettatore rispetto alle juta sospese. Anche queste opere sono innovative, non solo per le caratteristiche del disegno, ma anche per il tipo di supporto impiegato il cui colore è la sostanza e lo sfondo delle figure. Le figure sono qui rappresentate di qualche anno più grandi, sono distanti l’una dall’altra e assumono un aspetto più malinconico e riflessivo.
Berruti affronta di continuo lo stesso tema, senza esaurirlo. Attraverso l’uso di tecniche e supporti diversi applicati al medesimo modulo iconografico di base (la silhouette di due bambine), analizza gli aspetti e le varie fasi dell’infanzia.


Senza titolo (2010)

I tratti essenziali delle sue figure sono impressi su supporti grezzi come la yuta (non preparata e intelaiata), la carta ruvida da imballaggio, il cemento armato (lasciato in parte da ridefinire e da modellare). L’aspetto indefinito dell’opera è espressione della precarietà dell’esistenza e, allo stesso tempo, metafora della crescita. In queste opere l’infanzia è considerata la fase della vita in cui si forma la personalità, dove tutto è ancora indeterminato e tutto è ancora possibile. Il momento delle infinite possibilità in cui ancora non si è scelto cosa essere e nel quale ancora si può sognare di essere “speciali”. Ed ecco allora le suggestioni musicali di Creep che, anche se non è stata scritta appositamente per la mostra, è la colonna sonora ideale di questi lavori: il brano, infatti, “è l’infanzia dei Radiohead” che “non c’è più da nessuna parte ma è presente in ogni canzone” della band.
Il tema dell’infanzia è affascinante da un punto di vista intellettuale e coinvolgente da un punto di vista emotivo e Berruti lo sviluppa a partire dai suoi ricordi personali per poi arrivare ad una sua rappresentazione in termini universali così che ciascuno possa riconoscersi e ritrovare il bambino che era riscoprendolo dentro di sé.

Ida Tricoli


Valerio Berruti - I wish I was special
a cura di Luca Beatrice
dal 12 maggio al 31 luglio 2010
Ermanno Tedeschi Gallery, Via del Portico d’Ottavia 7 - Roma
www.etgallery.it

 

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