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A teatro con Sebastiano Del Piombo

È stata inaugurata da circa un mese, a Palazzo Venezia, una splendida rassegna monografica dedicata ad uno dei più grandi protagonisti dell’arte rinascimentale italiana, Sebastiano Del Piombo, a cui la presente esposizione tenta di restituire il posto che egli occup̣ accanto ai più grandi artisti nel firmamento italiano. Artista eclettico e curioso innovatore di tecniche pittoriche, la sua sfortuna storiografica poggia sul fatto che egli nacque tra Giorgione e Tiziano e lavoṛ tra Michelangelo e Raffaello, dunque tra i più osannati, difesi e celebrati geni dell'arte. La retrospettiva offre l’irripetibile possibilità di rivalutare un Maestro che, invece, è stato uno dei maggiori interpreti e fotografi della sua epoca e che, come tale, ne ha recepito spunti e maniere, finendo col diventare modello e fonte per numerosi altri artisti. Sono circa 80 le opere presentate, suddivise in sei sale che offrono un quadro pressoché  completo della sua vita, della sua arte e della sua fortuna; la prima e la terza sala sono dedicate, rispettivamente, una all’attività di Sebastiano a Venezia, la città dove nasce nel 1485 e dove si forma nella bottega di Giorgione, l’altra alle opere che realizza nella città di Roma, vera patria artistica del pittore fino alla morte avvenuta nel 1547. Al centro, significativamente tra le due descritte prima, un’intera grande sala dedicata alla ritrattistica, genere nel quale il veneziano si segnaḷ come uno dei più grandi interpreti e innovatori in ambito italiano. Seguono tre sale più piccole dedicate alla produzione grafica, alla fortuna di Sebastiano in Italia al tempo della Controriforma e alla fortuna in terra spagnola.  Se cị non bastasse, la suprema qualità artistica delle opere si coniuga con uno degli allestimenti più belli che, personalmente, abbia mia visto in una mostra italiana: i quadri non sono semplicemente appesi sulle pareti, ma emergono da aperture realizzate in finte pareti di stoffa, quasi a creare delle finestre che fanno da tramite tra il mondo reale del “riguardante” e quello fittizio dell’arte, secondo il famoso schema di Leon Battista Alberti, il quale definisce l’arte come “finestra sul mondo” che ha bisogno di una cornice che separi il mondo interno rappresentato nel quadro da quello esterno da cui il quadro prende origine. Alle spalle di queste finte pareti fuoriescono luci colorate che variano da sala a sala, creando un’aura di sacra spettacolarità di fronte a cui non si pụ non rimanere basiti e che genera in noi quel misto di attesa e meraviglia che ci assale a teatro di fronte ad un bel palcoscenico ancora vuoto ma sapientemente allestito.Qui Il palcoscenico, peṛ, non è vuoto, ma occupato dai meravigliosi attori delle opere sebastianesche che si affacciano al di là di aperture nell’allestimento curato dal genio teatrale di Luca Ronconi e Margherita Palli. A questa inaspettata esperienza estetico-estatica si unisce una correttezza e precisione dei pannelli illustrativi e delle didascalie delle opere esposte, realizzate in due lingue, italiano ed inglese, fatto non di poco conto e a cui non sempre viene dato in Italia il giusto peso. Avendo sottolineato fin qui l’assoluto carattere spettacolare, teatrale della mostra, mi sembra proficuo presentarvi le mie impressioni insieme a quelle di persone di differenti età che ho accompagnato in questi giorni in mostra, dal momento che ho la fortuna di collaborare all’evento come operatrice didattica. Il teatro è la forma d’arte per antonomasia in cui il rapporto con il pubblico non è solo sottinteso, ma risulta pienamente manifesto; ebbene le opere di Sebastiano in mostra sembrano fatte per intessere dialoghi con il pubblico. Tra i capolavori vorrei segnalare lo splendido Ritratto d’uomo in arme, uno dei ritratti più belli dell’arte italiana e, non a caso, scelto come immagine simbolo della mostra. Col suo piglio austero e fiero, questo personaggio è capace di intessere un dialogo sottilissimo con chi gli sta di fronte, senza contare che alla pregnanza espressiva corrisponde una altrettanto inusitata capacità di resa naturalistica della splendida corazza che viene descritta attraverso giochi chiaroscurali di grande impatto. La maggior parte degli studenti e degli adulti che ho accompagnato durante le visite alla mostra di fronte a questo quadro si sono fermati con occhi incuriositi e spaesati, scorgendo in esso riflessi dell’opera di Caravaggio. Quando li informo del fatto che il Merisi è nato ben 24 anni dopo la morte di Sebastiano, allora scatta automatica l’idea che il nostro altro non sia che un Caravaggio ante litteram. La mia risposta è no: Sebastiano non pụ essere definito attraverso i paradigmi estetici di altri artisti. Sebastiano non pụ essere semplicemente descritto come artista confondibile con Giorgione, pedissequo imitatore di Michelangelo, antagonista di Raffaello, precursore di Caravaggio. In tutte queste definizioni, che alla base sono pur vere,  si scorge il pericolo di annullare quella che fu invece l’originale parabola di un artista che ha saputo recepire gli stimoli della sua epoca e crearne di nuovi, inusuali nel tempo e nel contesto in cui vive ma che non desterebbero stupore se a generarli fosse un artista seicentesco.  Un altro dipinto che desta una grande attenzione tra il pubblico è il Ritratto di Ferry Carandolet, uno dei quadri che ha maggiormente colpito anche me. L’effigiato è un importante arcidiacono dell’epoca, procuratore a Roma per Massimilano I, ritratto mentre compie il suo lavoro, con accanto un segretario e alle spalle il volto di un altro personaggio che sembra affacciarsi solo per un istante nella scena, solo per noi. Il pubblico rimane colpito dalla modernità dell’opera, qualcuno mi dice, timidamente, che non ha mai visto un quadro rinascimentale, che, come questo, si apparenti più alla fotografia che alla pittura. Io rispondo che in effetti è coś, o meglio, che è coś in Italia. Un quadro del genere non ci stupirebbe se fosse un artista fiammingo ad averlo realizzato, ma ci sorprende molto pensando che l’autore sia un veneziano, e, per di più, quell’artista che, a detta di Vasari, neanche sapeva disegnare. L’attenzione alla resa materica delle stoffe, l’amore per il paesaggio, il particolare aneddotico del volto che si affaccia sulla scena, quei fogli accartocciati e illusionisticamente reali sul tavolo in primo piano sono fiamminghi, non c’è che dire. E qui faccio anch’io l’errore di descrivere l’arte di  Sebastiano indirettamente, attraverso l’ausilio di categorie estetiche non sue. Quel quadro non è fiammingo e il fatto che, pur non volendo partire da preconcetti, mi trovi ora ad assumere un atteggiamento che ho sin qui criticato è sintomo di quanto ancora Sebastiano del Piombo si conosca poco, o meglio, di quanto non esistano nelle nostre menti dei canoni artistici a lui collegabili, cosa che fa nascere in noi la necessità di appigliarci a quello che invece conosciamo con sicurezza. Possediamo categorie estetiche di riferimento per tutti gli altri artisti che con Sebastiano hanno lavorato ma non per lui, che coś difficilmente si lascia chiudere in canoni prestabiliti e il cui fascino maggiore risiede proprio nella sensazione che, riguardo alle sue opere, non è ancora stata detta l'ultima parola. Un consiglio: andate a visitare la mostra con l’atteggiamento di chi si trova ad uno spettacolo teatrale in una lingua che non si riesce a dominare pienamente; cercate di captare quello che già sapete ma rimanendo consapevoli che cị che più conta è cị che non riuscite a capire e che dovrete tentare di decifrare col solo ausilio della vista e, soprattutto, dell’immaginazione.

Tania De Nile


Sebastiano Del Piombo/1485-1547

a cura di Claudio Strinati

dall'8 febbraio al 18 maggio 2008

Palazzo Venezia, Via del Plebiscito 118 – Roma

www.mondomostre.it/index.html?includi=sebastiano

 

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