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RUBRICA | Impertinenze

Pensierino malinconico post-festivo

Durante le feste si ha modo di pensare, fantasticare, fare fioretti per l’anno nuovo. E perché no, crearsi aspettative. Quest’anno invece, a differenza degli altri, ho avuto l’impressione che Babbo Natale sia passato in punta di piedi lasciando l’incombenza di distribuire doni alla sua meno stimata collega, la Befana: la quale, com’è noto, invece di elargire regali è solita consegnare quintali di carbone.

Ecco, se sposto l’orizzonte un po’ in avanti (mica di tanto, poi, visto che fra poco più di anno potrei aver terminato gli studi) vedo una montagna che oscura ogni prospettiva. Seriamente: cosa potrebbe fare un ragazzo come me, con una laurea in storia dell’arte, curriculum “curatore di eventi artistici e culturali” in un paese come il nostro? So di toccare un filo scoperto, ma non per questo voglio esimermi dal denunciare la situazione che viviamo in Italia. Da noi il termine “cultura”, nella sua accezione più ampia, sembra esser recepito come uno spauracchio, una tana riservata a pochi e sfigati occhialuti o rampanti dandy in ascesa che possono permettersi un catalogo da 60 euro e vari giri di bevute nei bar radical-chic all’ultima moda. Per la stragrande maggioranza delle persone, non esiste la concezione di manifestazione artistica che si distacchi dal puro intrattenimento: dunque, file ai botteghini per l’ultimo Boldi, per la mostra di richiamo, per il concerto di Gigi d’Alessio. Lungi da me apparire snob: ognuno ha i suoi gusti e non nego che, ogni tanto, il b-movie d’annata me lo pappo anch’io.

Ma in un paese civile deve esserci spazio per tutti; e soprattutto si dovrebbe capire che l’educazione al patrimonio, alla varietà delle espressioni artistiche non è un surplus ma una necessità esistenziale primaria. In quasi tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale, l’abitudine all’osservazione delle opere d’arte (culminante spesso nella pratica produttiva vera e propria) entra a far parte del bagaglio formativo del bambino (nonché futuro “cittadino”) fin da una fase in cui i nostri pari età, solitamente, ancora non hanno nemmeno iniziato a togliersi le caccole dal naso. L’educazione all’arte fa sognare, sviluppa la creatività ed il pensiero critico, rende liberi, autonomi, disposti al confronto e all’accettazione delle differenze. Determina, in sintesi, la qualità della vita. In altri contesti al di fuori dei nostri confini (a Parigi, ad esempio, ma anche in Germania e Gran Bretagna) è facile vedere nella metro normalissimi signori sfogliare normalmente riviste letterarie, artistiche o saggi di vario genere. In altri contesti è facile che un curatore o un critico o un “semplice” addetto museale vengano considerati, utilizzati, valorizzati, stipendiati come si dovrebbe. Sia chiaro, non è che i casi citati siano isole felici; ma là, in linea di massima, per il cittadino medio la cultura è un bisogno quotidiano; e non c’è da stupirsi che le proposte più significative nel campo della ricerca artistica provengano da tali realtà (o da altre extraeuropee).

Perché, a lungo andare, l’educazione ad un linguaggio sempre nuovo, sempre aperto come quello artistico porta a spingere ogni volta più in avanti gli orizzonti nell’ambito dell’offerta culturale. E quindi della crescita del livello di un paese. Una dimostrazione viene dal sistema gallerie, veri e propri motori, fulcro del lancio di artisti e manifestazioni, centri di sperimentazione: da noi, per quel che mi risulta, sono rari i casi in cui un gallerista si mette in gioco. Perché sa che avrebbe vita breve. Per non parlare del fronte critici/curatori: in Italia dettano ancora legge la solita manciata di dinosauri. E Sgarbi deve reinventarsi p.r. dei locali, con tanto di prezzolate comparsate nelle discoteche, per garantire la propria sopravvivenza. Il prossimo Natale dovrei essere in aspettativa di laurea-bis: faṛ scorte di carbone, perché mi sa tanto che di pane – per noi “storici dell’arte” – ce ne sarà poco.

Saverio Verini

 

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