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RUBRICA | Impertinenze

Reazione da reazionario

Pochi giorni fa ho letto con stupore sul Corriere della Sera un intervento di Robert Hughes, grande critico d'arte autore, fra l'altro, del celebre testo “La cultura del piagnisteo” (brillante pamphlet di critica al sistema dell'arte contemporanea). L'articolo, uscito il 21 giugno, non era altro che l'anticipazione di un discorso tenutosi poi in occasione del festival “La Milanesiana”, fiore all'occhiello del dibattito culturale in Italia e non solo, dedicato quest'anno al tema de “l'invisibile”. Il titolo del saggio, “In difesa dell'inestimabile”, prometteva bene: invece, arrivato alla fine delle sei colonne, non ho potuto fare a meno di annotare alcune riflessioni di segno assolutamente opposto a quello di Hughes. In breve: il critico si sofferma a lungo sulla banalità di gran parte della crezione artistica contemporanea, sullo sperimentalismo forzato, sulle quotazioni immorali di opere d'arte, sulla mentalità da squalo di tanti mercanti e sulla greve volontà di ostentazione di certi collezionisti. Fino a qua siamo pienamente in sintonia. Ma quando esprime considerazioni al vetriolo su gente come Barnett Newman (“...la zip di Newman è solo una linea che divide una superficie di colore diverso. E' diventata molto più costosa nei trent'anni trascorsi, ma per me non ha assolutamente alcun aspetto religioso o numinoso o genuinamente sublime e non posso farci nulla”) o sulle “pretese teosofiche” di Kandinskij (“le sue solenni ciance slave sulle forme del pensiero mi lasciano del tutto freddo”), la cosa inizia a prendere le forme di un'enorme tazza del water sulla quale qualcuno l'ha fatta di fuori. In pieno stile da predica dell'anziano brontolone, non pago, Hughes si mette ad inveire anche contro Andy Warhol (“...io mi guarderei bene dal possedere un solo Warhol. Riuscite a immaginare di alzarvi al mattino e trovarvi davanti per prima cosa l'ormai noiosissimo cliché della faccia di Marylin che vi fissa?...Credo che poche cose nella vita possano essere più volgari delle opere di Warhol”); d'accordo, il capitolo Warhol è spinoso almeno quanto quello duchampiano, ma insomma, andiamoci piano. Volendo fare il simpaticone, si potrebbe replicare “Robert, guarda che un Warhol sta bene anche in soggiorno oltre che in camera da letto”, ma non è questo il punto: la cosa che mi lascia più perpelesso è l'approccio “veteroformalista” e “purovisibilista” del critico, come se a Hughes importasse solo il livello estetico (nel senso di “gusto esteriore”) di un'opera, senza capirne il valore concettuale e l'importanza del percorso storico-artistico nei secoli. Tornando a Newman, ad esempio, ritengo che sia stato una artista di rara potenza, capace di stimolare – proprio attraverso quella semplice “linea che divide una superficie di colore diverso” - dei moti dell'animo e delle riflessioni altissime: non so quale altra espressione potrebbe essere più umana e tutt'altro che forzata della raffinata sintesi di Newman. Per chiudere: a me sembra che dall'illuminante “La cultura del piagnisteo”, Robert Hughes non si sia mai voluto scrollare di dosso l'immagine del criticone, del “signor no”, sempre e comunque “contro”. E scaricare la responsabilità degli eccessi del mercato sugli artisti (molti dei quali morti, fra quelli citati) mi sembra una visione semplicistica; non perché i mostri sacri non si possano toccare (su gente come Hirst e Vezzoli la penso esattamente come lui), ma perché l'immoralità denunciata da Hughes trae vigore in special modo dalle cifre da capogiro imposte da galleristi e altri addetti ai lavori, non certo dai trapassati nell'oltretomba.

Saverio Verini

 

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