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Focus On Gino Marotta

Gino Marotta. Tra natura e artificio, vita e teatro.

L’idea di una mostra virtuale dedicata a Gino Marotta, uno dei protagonisti più originali della scena romana tra gli anni sessanta e settanta, è nata per caso, in seguito alla visita alla recente personale dedicata all’artista, che si è svolta a Roma all’interno delle “Gallerie La Nuvola”. In questa, come nelle altre mostre a lui dedicate recentemente, si dà spazio quasi esclusivamente ai suoi famosi “cavalli di battaglia”, le fantasiose sagome di alberi e animali in metacrilato, lasciando in ombra le altre tappe di una parabola artistica solo apparentemente eterogenea e, invece, tanto coerente da non poter essere compresa senza conoscerne i singoli tasselli: il presente progetto mira proprio a cogliere il filo rosso dell’intera produzione artistica di Gino Marotta. Molisano di nascita (nasce a Campobasso nel 1935), Marotta è pienamente romano per formazione e perché a Roma si svolge la sua complessa e composita attività artistica che lo vede al centro dell’importante gruppo romano della Scuola di Piazza del Popolo, sorta attorno alla galleria “La Tartaruga” gestita da Plinio De Martiis. Due sono stati i suoi punti di partenza fondamentali: la materia di Burri e la poetica dell’oggetto di Johns, che proprio a Roma aveva esposto nel 1958. È appunto da questi presupposti che si deve partire per comprendere l’opera di Marotta e la ragione per la quale la materia e le possibilità dell’artista di intervenire su di essa, di farne un oggetto “materialmente” plasmabile, saranno il perno di tutta la sua arte. Nascono cosě i suoi primi esperimenti di “Velatini”, un misto di pittura e smalto su stoffa, seguiti dai ben più materici “Piombi” degli anni 1957-1958, composizioni di piombo e stagno fissati su pannelli che conservano ancora una volontà pittorico-evocativa dominante. Da qui, il passo successivo è quello dei “Bandoni”, vere e proprie lamiere di ferro trovate, tolte da oggetti comuni, in cui s’inseriscono lacerti d’immagini figurate tratte da giornali o fotografie: materia e oggetto, appunto, in cui il tentativo principale è quello di mettere in evidenza, attraverso la stratificazione di materiali già esistenti, la naturalità del loro sovrapporsi nel tempo, una naturalità, dunque, che si discosta progressivamente dalla materia naturale-primordiale cui tendeva l’informale per accostarsi all’oggetto, all’oggetto artificiale, lavorato e organizzato dalle abili mani dell’ “homo faber”. A tale riguardo risultano illuminanti le seguenti parole di Gino Marotta: “A me interessa, e lo voglio sottolineare, sempre in modo prioritario la dimensione artigianale dell’arte, la sapienza del fare che è alla base di ogni creazione”. È bene tenere presente che è proprio tra questi due poli, naturale ed artificiale, che si svolge la sua parabola artistica e che sono questi gli input che lo portano a realizzare, dalla metà degli anni sessanta in poi, sculture rappresentanti animali, piante, fiori, i quali risultano essere naturali nella loro evidenza iconica, ma artificiali per la materia, il metacrilato, prodotto attraverso le più moderne tecniche industriali. Il massimo della naturalità in immagini che sembrano create per dei bambini, per il gioco, convive con il massimo dell’artificialità, resa evidente dai colori industriali di questi esseri-oggetti. E dall’oggetto chiuso si passa all’opera aperta, all’“environment art”, alla creazione di spazi artificiali che sono anche spazi della finzione, spazi che fingono il naturale, che fingono la realtà. Nascono nel 1967 il “Bosco naturale-artificiale”e il “Paradiso artificiale”, luoghi in cui lo spettatore si muove con lo sguardo meravigliato ma anche disincantato, perché il paradiso è appunto falso e fittizio; luoghi che non perdono di vista la realtà, perché è proprio la natura che essi rappresentano, una natura semplificata nelle sue forme, non più natura variabile e cangiante, ma fissa, schematizzata, tipizzata, e l’oggetto tipico, si sa, era al centro della Pop romana e delle poetiche della Scuola di Piazza del Popolo.  Anche nelle opere pittoriche degli anni settanta egli costruisce spazi che fingono il reale, veri e propri paradisi artificiali. E finge il reale anche il teatro, che sarà una delle grandi passioni di Marotta ed uno degli aspetti che più sottilmente lo legheranno a Roma, perché parlare di teatro a Roma vuol dire parlare essenzialmente di due grandi artisti: Bernini e de Chirico. Ebbene questi due “mostri sacri dell’arte” sono al centro delle sue opere pittoriche degli anni ottanta, opere metafisiche, perché sospese in una sorta di palcoscenico dove trovano posto gli angeli di ponte Sant’Angelo del Bernini che sostituiscono le statue greche dei quadri spaesanti dechirichiani, il tutto condito con riccioli, stelle ed altri oggetti che sembrano riproduzioni pittoriche delle sue opere in metacrilato degli anni precedenti. La volontà dell’artista è quella di creare un metaspazio metafisico che sia il riverbero di un luogo immaginato o sognato, ma non completamente lontano dalla realtà, tant’è vero che è un mondo fatto di forma e materia, più che di immagini, e per di più di materia ultramoderna.  Soprattutto nelle opere dell’ultimo periodo, come in alcune tele degli anni novanta, il parallelismo con il teatro torna praticamente in ogni titolo e compare l’immagine del retro del quadro, che ci comunica l’esistenza di una realtà, di un mondo che esiste al di là e che qualche volta si lascia intravedere attraverso spiragli che si aprono direttamente sul telaio del finto quadro rappresentato o semplicemente spostando su un lato la rappresentazione del retro del quadro, cosicché sia visibile almeno in parte ciň che è da esso celato, come in Scena aperta (1993). In un'opera come Cielo fuori scena (1993) l’artificio, il cielo fittizio, non è sulla scena: è come se Marotta  ci dicesse che la finzione non è più prerogativa del teatro, dell’arte, ma si trova fuori scena e quindi coincide con la vita. In un’altra sua opera, l’estasi della beata Ludovica Albertoni del Bernini è “fuori scena”, per cui l’arte si colloca là dove dovrebbe trovarsi la vita e la vita diventa finzione, artificio. L’arte non finge più la vita, non è specchio della natura: è qui che si consuma il dirottamento da un sistema linguistico ad uno metalinguistico. L’arte si sostituisce alla natura cosě come il teatro si sostituisce alla vita. Lo stesso atteggiamento era stato adottato anni prima nella preparazione della scenografia che Marotta realizza per “Nostra signora dei Turchi” di Carmelo Bene (1971), una delle numerose esperienze che lo vedono impegnato con il teatro in maniera diretta; in questo caso il palcoscenico veniva completamente isolato dal pubblico: la scena era una vetrata con cascate di glicine e rose e tutta la prima parte dello spettacolo si svolgeva al di là di questo strano sipario.  Un’opera come Teatro delle ombre (1994), significativamente posta a conclusione di questo percorso virtuale, diventa emblema del complesso percorso marottiano:quello che vediamo è il retro del quadro, l’arte dunque è al di là. L’albero, e cioè la vita, è invece dove siamo noi. La vita perň diventa ombra, ombra e quindi doppio, doppio dell’arte. La vita come doppio dell’arte: è questo il messaggio finale di Gino Marotta, che conduce ad un totale ripensamento delle tradizionali categorie estetiche di riferimento attraverso un percorso tanto suggestivo quanto disincantato.

Tania De Nile

 

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