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GLI ARTISTI | Margherita Moscardini

Come hai maturato il progetto realizzato per Nuova Gestione e in che modo pensi si sia legato al contesto ospitante?

Io dovevo parlare della palazzina anni Venti, di analogia, di cave di pozzolana, della pietra estratta e reinvestita in altezza, dei residui che vanno a colmare lacune, dello spostamento di energia che c’è nel paesaggio, di quanto l’eccesso sia fuori luogo, del rastrellamento e delle tre dattilografe del cinema Quadraro, nome cognome età, di Venzo e loro vestiti di scuro seduti sulle macerie, incorniciati dalle finestre divelte, di Kappler che era a Roma e Kesselring nascosto nel giardino selvaggio di fronte casa mia, del ricordare, quando è il movimento che più somiglia alla vitalità, del villaggio InaCasa, dei desideri degli abitanti del quartiere, del grottino che chiude quando la Morante chiede al suo editore che La Storia esca in edizione economica, del capitolo 1944, e del Quadraro che manca, di Mamma Roma, Largo Spartaco, del parco degli acquedotti con Ettore che fa il verso alle rovine, della quercia che fa il verso al monolite e si erode come lui, di Pontormo, della puttana che abitava la baracca 725 dell’acquedotto felice, di don Sardelli e la sua scuola, perché è naturale ci sia un pericolo in tutte le suggestioni, ma è un pericolo che non voglio né saprei evitare; dell’edificio abbandonato di via Sagunto, dell’erba rasata del parco, le rovine recintate, l’umidità, l’albero divelto e Giuseppe Pelosi con la tuta da giardiniere. E poi Moravia che scrive Gli Indifferenti e i tedeschi che rimuovono e ricostruiscono, gli italiani che parlano e parlano e si persuadono di aver saldato i conti, di Roberta che è gentile, del grottino che diventerà sede del solesottoterra, perché i palazzi costruiti attorno gli tolgono la luce e la scopa rotta non si deve buttare.


Come è stato lavorare a stretto contatto con un quartiere così caratterizzato, sia a livello urbanistico che sociale? Quanto hanno influito i vari pubblici incontrati e con i quali hai interagito ̶ a partire dai locatari ̶ nella realizzazione dell'opera?

Il lavoro doveva rispondere a tante preoccupazioni, e le volevo comunicare con chiarezza (un SourceBook). L’ho fatto osservando come la storia italiana e quella di Roma attraversano la storia del Quadraro, e poi guardando ai manifesti politici di alcune ricerche minimaliste (la cassa), che un generale atteggiamento omertoso ha permesso fossero fraintese. Questo quartiere è un monumento, e lavorarci ha significato assumermi la responsabilità delle sue vicende. Il lavoro è stato condizionato dall’inizio alla fine dai propositi e le esigenze dei locatari: io sono entrata a casa loro, era difficile evitare che loro entrassero nel mio intervento. Ho progettato entrambi i volumi pensando alla destinazione del locale: un luogo pubblico, sede di un’organizzazione attenta ad un’architettura di qualità. Dopodichè Carlo e Roberta si sono prestati a sistemare i loro oggetti dentro la cassa, ed insieme abbiamo riconfigurato il resto dello spazio, in origine completamente ingombro. E’ stato un continuo compromesso, è stato un lavoro a più mani, dove il processo era già risultato.


Credi che un approccio 'community specific' possa essere in questo momento un’alternativa validamente critica, soprattutto all’interno del contesto artistico contemporaneo romano?

La site-specificity ed ogni altra declinazione del principio di glocalità vanno benissimo, sono un fatto classico che percorre tutta la storia, compresa quella dell’arte, ma sono pur sempre i frammenti di un atteggiamento analitico (che come dice la Campo appartiene ad un’epoca di terrore) contro un pensiero sintetico che ha saputo coltivare l’attenzione. Sono sincera, non conosco abbastanza il contesto artistico romano per dire cosa possa essergli utile. So che la sola possibilità che ha un autore di colmare la distanza tra il proprio lavoro e il mondo a cui è rivolto, è la complessità. Penso ad una complessità antica, fatta delle competenze di centinaia di persone, le migliori, spesso del posto, voluta da committenti determinati a comunicare con chiarezza delle storie ad una precisa comunità, e con mistero invece ad un'altra, diversa, comunità. I cicli di affreschi del Quattrocento, le cattedrali gotiche, ma anche la piccola tela destinata ad un preciso vano: la finestra sulla destra e il lucernario dall’alto, da cui la luce diffusa nella realtà trova corrispondenza nella rappresentazione.

Quali aspettative avevi rispetto a Nuova Gestione e cosa ti porterai dentro di questa esperienza?

Più che le aspettative, conoscevo i rischi: le difficoltà tecniche, le variabili legate ai tanti interlocutori coinvolti, e la consapevolezza che, trattandosi di una tipologia di progetto già conosciuta, avremmo dovuto fare un lavoro davvero speciale. Mi ha colpita la qualità della professionalità che ciascuno attorno a me ha mantenuto: poco viziata e fatta invece di esattezza, di precisione, di distanza forzata dagli eccessi (parlo sia di forze economiche, di energie spese nella logistica, che di contenuto del lavoro). Proprio in un momento di difficoltà globale così acuta, questo tipo di professionalità mi pare non solo debba essere accettata, ma scelta. Lavorare per Nuova Gestione è stato importante.

 

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