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SPECIALE | VI Berlin Biennale. What is waiting out there

Si è conclusa l'otto agosto la VI edizione della Berlin Biennale, una delle più giovani e consolidate piattaforme per l' arte contemporanea in una delle città che, senza dubbio, si riconferma centro nevralgico per la creatività e per la comunità artistica internazionale. L' evento ha messo a dura prova la resistenza fisica (ed intellettuale) dei visitatori più allenati, per via di quella tendenza, che ha distinto anche scelte curatoriali passate, a dislocare la presentazione delle opere nei contesti più inaspettati e meno istituzionali della capitale berlinese.

Dalla sede principale situata nella centralissima Mitte, il KW Institute for Contemporary Art, vecchia fabbrica di margarina convertita, come altri edifici industriali della capitale tedesca, in sede policulturale, il percorso espositivo ha colonizzato gli spazi semiabbandonati di Kreuzberg: l' enorme magazzino commerciale sito in Oranienplatz 17 ha ospitato gran parte degli artisti in mostra, mentre il piccolo Café Ferat è stato adibito a saletta cinematografica per un solo film di John Smith. Tra le location più inusuali, l'appartamento di Danh Vo, artista vietnamita che ha aperto al pubblico la sua privacy domestica, e gli introvabili locali in Mehringdamm 28, situati tra officine meccaniche e garage occupati per l' occasione da ventritre video dell' americano George Kuchar e dall'angusto ambiente concepito da Cameron Jamie. Si ritorna a Mitte, questa volta alla Alte Nationalgalerie, per la mostra curata dallo storico dell'arte americano Michael Fried, Extreme Realism, interamente dedicata all' opera pittorica, alle incisioni e ai disegni dell'artista tedesco del XIX secolo, Adolph Menzel.  Com' è evidente da questo decentramento tra luoghi-non-luoghi espositivi, il progetto della curatrice viennese Kathrin Rhomberg, già co-curatrice di Manifesta 3 e curatrice del padiglione ceco e slovacco della 53ma Biennale d'arte di Venezia, vuole sviare qualsiasi approccio unilaterale ai contenuti proposti. What is waiting out there (trad.it. cosa ci aspetta là fuori), più che un titolo per questa biennale, un' affermazione carica di interrogazioni e di ambiguità, che ha lasciato aperta la più ampia prospettiva nella scelta dei lavori dei quarantacinque artisti selezionati (tra cui nessun italiano, ahinoi!). << Mi sono interrogata sulle possibilità dell'arte di rendere visibile ciò che, senza il suo intervento, resterebbe invisibile >>, queste le parole della Rhomberg che raccontano l' idea di fondo di una visione curatoriale sicuramente ambiziosa, ma sintomatica di uno stato di incertezza sulle possibilità effettive dell'arte di produrre posizioni critiche sulla realtà, sia essa politica, sociale o privata. Nel complesso non si è delineato un punto di convergenza privilegiato nei confronti delle opere, la cui presentazione, oltre un' appartente umiltà, tradisce, a ben vedere, la forte volontà di uno sguardo critico, in ogni caso politicamente connotato, sulla realtà nelle sue ambivalenze, nelle sue illusioni e nei suoi paradossi. D' altronde, se è la nostra stessa attitudine nei confronti del mondo ad aver subito un gap dai confini imprecisati, per colmare questa distanza, che ha portato all' accetazione e alla legittimazione di realtà distorte e di illusioni costruite per sopravvivere nei macro e nei micro cosmi dell'esperienza quotidiana, il bisogno di nuovi orientamenti di visione diviene sempre più necessario.


Roman Ondák, Zone (2010)

Mettere lo spettatore di frontealla realtà non significa sempre e comunque assumere posizioni nette e chiarificatrici: l'installazione un po' borderline, di Roman Ondák consisteva in un ordinario guardaroba strategicamente collocato all'ingresso del magazzino in Oranienplazt. L'artista sloveno aveva convinto di più alla 53° Biennale di Venezia con il suo intervento (Loop), facendo scomparire visivamente il padiglione Ceco e Slovacco e trasformandolo in un giardino alberato come perfetto riflesso dell'ambiente esterno. Altra attitudine, più che politicamente corretta, nei confronti della realtà out there, o se vogliamo, far far away, il video a due schermi contrapposti, All that is Solid Melts into Air di Mark Boulos: in un crescendo di urla e gesti si fronteggiano da una parte una banda di guerrieri del Niger, dall'altra le immagini di una folla infeocita a Wall Street.


Mark Boulos, All that is Solid Melts into Air (2008)

Rieccheggia invece, nelle sale del magazzino a Kreuzberg, la voce dell' Hallelujah nella versione di Jeff Buckley, interpretata drammaticamente da una donna turca tra le costruzioni abusive di Ankara (I Can Sing) dove vive e lavora l'artista, Ferhat Özgür. Tra i numerosi video di questa biennale, spesso opere di esplicita denuncia,  il semi-documentario Marxism Today (Prologue) di Phil Collins e l'emblematico Problems with Relationship di Armando Lulaj, in cui l'atto di sottomissione di un cavallo diventa allegoria violenta dei poteri capitalisti e neo-liberali.


Ferhat Özgür, I Can Sing (2008)

Ha catalizzato l'attenzione della critica il giovanissimo Petrit Halilaj (classe '86, Kosovo) che ha dominato, con la ricostruzione in legno della casa paterna con tanto di pollaio, l'intero spazio d'ingresso all'interno del Kw e il piccolo cortile sul retro della sala. Un intervento che radica nello spazio del white cube la realtà personale dell'artista fatta di migrazione, memoria e tempo, fulcro importante di tutto il suo processo di creazione. Il berlinese Michael Schmidt opera invece sull'impatto urbano delle sue fotografie affisse sui muri cittadini: figure di giovani donne, catturate di spalle o di profilo, anonime, ma nello stesso tempo consapevoli di sfuggire ai plagi che le attenzioni massmediali impongono sulla figura femminile.


Petrit Halilaj, The places I'm looking for my dear are utopian places they are boring and I don't know how to make them real (2010)

Passiamo oltre i bilanci definitivi, ma riconosciamo a questa biennale il pregio di aver proposto uno sforzo, una messa in discussione di una realtà concreta, turbata, che qui è passata in primo luogo attraverso una presa di coscienza da parte degli artisti, a conferma che l'arte, almeno quella che vuole ambire alla denominazione 'contemporanea', non può tirarsi indietro di fronte a quest' impellenza: non solo dare a vedere il mondo dentro e fuori sé, ma cambiare e disorientare i punti di vista per avvicinarsi più sinceramente a quello che sta là fuori.


Nicoletta Guglielmucci - Simona Merra


VI Berlin Biennale for Contemporary Art - What Is Waiting Out There
a cura di Kathrin Rhomberg
dal 11 giugno all' 8 agosto 2010
Sedi varie -  Berlino
www.berlinbiennale.de

 

 

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