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RUBRICA | Reflexioni

Non è colpa mia se non c'è pace. C'è chi fa il torero, il deputato. Io faccio il fotografo...

Volevo essere originale. Volevo scrivere su una rubrica di fotografia e non parlare del Word Press Photo. La mostra al Museo di Roma in Trastevere si è conclusa, e io ce l'avevo fatta.
E non ci pensavo nemmeno più, fino a che qualche sera fa una persona mi dice: dai vediamoci Blow up.
E allora penso un attimo a Blow up e al fatto che, nonostante tutti i commenti intelligenti che ci ho letto su, a me di quel film è sempre piaciuta solo una cosa. Cioè che, per scoprire quel che scoprirà, il protagonista-fotografo deve ingrandire e ingrandire l'immagine, trovare il particolare nascosto. Se avesse guardato di sfuggita quel negativo non si sarebbe accorto di nessun cadavere. C'è una foto che nasconde qualcosa di scioccante ma, per arrivare a quello shock, c'è  bisogno di una buona dose di contemplazione.
Alla fine la proposta di rivedere il film l'ho glissata ma, ormai,  si era scatenata una reazione a catena. E ho pensato al World Press Photo. Ad una foto in particolare.



© Olivier Laban-Mattei, Francia; Agence France-Presse

Che film avrebbe girato Antonioni se la foto scattata dal suo protagonista fosse stata questa?
Questa è l'immagine 'tutta lì' per eccellenza.
Cosa aggiunge questa immagine al racconto sul terremoto di Haiti?

Ne sono pieni molti blog che si occupano di fotografia di discussioni e articoli su questa immagine. E si interrogano principalmente su due cose (direi tra loro legate):nsulla sua 'eticità' e sul fatto che sia 'bella' nel senso di essere costruita su dei principi estetici formali che ne rafforzano la spettacolarizzazione. Eccolo qui, il vecchio tema su cui la Sontag ha scritto tanto.
(Vi avevo avvertito. Volevo essere originale ma non ci sono riuscita).

È indubbio che questa foto sia sulla bocca di molti. Insomma, il grande pubblico ne è rimasto colpito.
Ok, c'è chi dirà che il fotografo ha semplicemente riportato un fatto, qualcosa di realmente accaduto, per quanto scioccante possa essere. Anzi, che le immagini non devono essere edulcorate. Ma il problema è che questa non è un' immagine necessaria per raccontare un fatto non raccontabile altrimenti. Se fosse stata una testimonianza unica, allora avrebbe avuto la sua ragione di esistere, allora il dovere di 'far vedere' ne giustificherebbe l'esistenza. Ma quello che vi trovate davanti, a mio avviso, è qualcosa di gratuito e, perdonate la comparazione un po' forte, siamo sui livelli del plastico di Cogne da Bruno Vespa. Siamo al voyerismo puro. Siamo all'immagine da bere tutta di un fiato, che non necessita di nessuna riflessione. Siamo nel regno dello sguardo superficiale sull'immagine superficiale.
Ma davvero non abbiamo più voglia di chiedere qualcosa di più, davvero vogliamo accontentarci di questo? Siamo diventati consumati - consumatori usa e getta, siamo cocainomani che hanno bisogno della sniffata quotidiana per regalarci un po' di adrenalina?

Non lo so. Ma so per certo che in questo Word Press c'è un altro lavoro che invece (e fortunatamente) ci indica un'altra via. E' il lavoro di Darcy Padilla: The Julie Project; in mostra vi era, inevitabilmente, una parzialissima selezione di immagini ma è un reportage che è durato 18 anni, e che consiglio di vedere per intero.



©Darcy Padilla / The Julie Project

C'è questa fotografa che segue la vita di Julie raccontandone le battaglie, la povertà, l'AIDS, le sue relazioni. C'è una densità emotiva impressionante in questo lavoro, c'è tutto 'il dolore degli altri' a cui non riusciamo a sottrarci. C'è un racconto davanti al quale dobbiamo fermarci necessariamente, perché queste immagini non hanno una superficie liscia ma sono un terreno fangoso che ci intrappola e rende ogni passo avanti faticoso ma allo stesso tempo coinvolgente. Non c'è lo shock di un minuto ma c'è quella specie di comprensione lenta che necessita, se possibile, di empatia.
C'è un bianco e nero che ti inghiotte, e una bellezza formale che riesce nel suo compito più alto. Non si tratta di estetizzazione per spettacolarizzazione, ma di estetica che si fa contenuto, dell'e totale di forma e sostanza. Non c'è un immagine, nemmeno una, che sia tutta li.
E tutte insieme assumono una forza che fa si che una storia personale diventi inevitabilmente una storia universale.

Probabilmente è più faticoso.
Ma ho la netta sensazione che valga la pena fermarsi, prendersi del tempo, concedersi il privilegio di abiurare al tutto e subito.


Valeria De Berardinis

 

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