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Giornata al Palazzo delle Esposizioni (parte II)

Confesso d’essere un po’ appesantito dal “mito della velocità”: sembra un paradosso, ma è coś. Il colosso Cina che mi attende al secondo piano mi spaventa un po’. Temo i nomi degli artisti, so già che mi impalleṛ nel trascriverli sul taccuino. Commetto subito il grossolano errore – me ne accorgeṛ solo alla fine, nonostante le indicazioni –  di iniziare la visita alla mostra nel senso sbagliato, ma si tratta di una venialità. Addirittura di un colpo di fortuna: perché la prima opera che mi si presenta entra di diritto nella “top five” di “Cina XXI secolo”. Wang Du ha preso delle pagine di giornale, le ha ingrandite fino a due metri d’altezza per altrettanti in larghezza e ne ha prodotto tre copie in bronzo, ognuna riferita ad una testata diversa (lo statunitense New York Times, il sovietico Pravda ed il saudita Asharq Al-Awsat): un intervento dall’impronta inequivocabilmente pop (ricorda le sculture flosce di Oldenburg) a metà fra ironia e polemica con i media (a prescindere dalla loro appartenenza) considerati “carta straccia” pesante ed ingombrante. Le tele di Yin Zhaoyang mi ricordano quelle magliette da bancarelle della costa adriatica, quelle in cui compaiono scritte sfocate inducendo tutti a mettere in dubbio la propria messa a fuoco ed il proprio tasso etilico. Il ciclo “Qualm” (2007) composto da tre dipinti ad olio si merita un “più” per la tecnica esecutiva coś poco convenzionale, con quei volti deformati che sembrano specchiarsi in uno stagno dove un sasso gettato ha spezzato la quiete e con essa le linee non più composte dei tratti somatici. Purtroppo quello di Zhaoyang è l’unico nome che mi sento di segnalare in ambito pittorico: le altre opere, eccezion fatta per quelle di Liu Xiaodong (sul quale mi sono soffermato il mese scorso), non lasciano tracce significative. Meglio allora l’enorme corpus di foto, all’interno del quale, fra alti e bassi, Wang Qingsong e Weng Fen riescono a dire qualcosa. Il primo, in particolare con un’opera che ho già avuto modo di apprezzare alla Biennale di architettura del 2006 intitolata “Dormitory” (2005), riesce a dare una visione del proprio paese davvero in linea con l’immaginario collettivo: non so quanto cavalchi gli stereotipi, sta di fatto che se penso alla Cina, non posso far a meno di visualizzare questo enorme dormitorio dove tutti sono nudi, ingabbiati in cuccette ricavate da improbabili soppalchi, senza un briciolo di spazio per l’autoaffermazione o per l’intimità e tuttavia condannati ad una solitudine inesorabile. Weng Fen, nome più presente in mostra, basa la propria produzione su un set praticamente identico, con due ragazzine abbracciate, rigorosamente di spalle, a contemplare di volta in volta paesaggi metropolitani vastissimi ed in continuo avanzamento architettonico. La presenza delle due ragazzine è spiazzante o incoraggiante a seconda dei punti di vista: stanno assistendo ammirate o impotenti all’espansione urbanistica di Pechino? Fra i prodotti migliori espressi dalla scena cinese contemporanea non mancano video, alcuni dalla lunghezza insostenibile e dal senso equivocabile (vi sconsiglio vivamente Yan Lei), altri in grado di comunicare suggestioni inaspettate attraverso atmosfere cupe (“Minguo Landscape” video-animazione di Qiu Anxiong: nomen omen, davvero ansiogeno) ed il colorato “RMB City”, una trasposizione grottesca dei vizi e delle virtù del paese fra fabbriche fumanti, statue del regime, ruote di bicicletta e grattacieli, riletti attraverso il filtro della piattaforma “Second Life”: in pratica, una simulazione d’una simulazione che non fa che amplificarne l’effetto surreale. Se dovessi indicare l’opera più rappresentativa punterei il dito verso “Last Day of Grand Sale” (2007), installazione di Zheng Guogu che mette in scena un vero e proprio mercato, un grande bancone di “roba”, tipico dei “marché aux pucex” che si possono trovare in ogni città dove inevitabilmente ci si imbatte in un calderone di abiti a basso prezzo, sporchi delle impronte lasciate dagli acquirenti che provano, rovesciano, cercano, sparpagliano. Metafora efficace della frenesia, della rincorsa al grande sconto e della ricerca dell’occasione a tutti i costi, nell’attesa che un banditore metta ordine, “Last Day of Grand Sale” riassume appieno la complessità di letture di questa mostra dove si mescolano immobilismo e frenesia, contemplazione e progresso, anonimato e vitalità, inquietudine e gioia. “Cina XXI secolo” non pretende di dare ordine, ma ha il merito di mettere in luce le diversità, senza cercare a tutti i costi collegamenti forzati. D’altronde, come poter offrire una visione d’insieme unitaria della scena artistica del paese attualmente più popolato al mondo, nel pieno di un mutamento socio-economico di portata globale?  P.S.: mi sono domandato, anche alla luce dei recenti fatti in Tibet, se le opere presenti in mostra abbiamo un effettivo contenuto polemico nei confronti delle condizioni di vita in Cina. E se sono in dissenso come appare chiaro in più casi, come fanno gli autori a continuare nel proprio paese l’attività visto che risiedono tutti fra Pechino e Shanghai? Ho come la sensazione che anche nel campo delle espressioni artistiche ci sia una forma di controllo che impedisca di far circolare i lavori all’interno del paese, dando invece il nulla osta per l’estero. Forse l’istituzione Palazzo delle Esposizioni dovrebbe interrogarsi sul destino delle opere al termine della mostra, una volta rientrate in Cina.

Saverio Verini


Cina XXI secolo. Arte fra identità e trasformazione

a cura di Zhu Qi e Morgan Morris

dal 19 febbraio al 18 maggio 2008

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194 - Roma

www.palazzoesposizioni.it

 

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