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RUBRICA | Impertinenze

Manifesta della non fruibilità

Manifesta è una delle rassegne artistiche più interessanti  a livello europeo (presenta praticamente solo volti nuovi del panorama internazionale, senza perdere in autorevolezza); da quando è nata, nel 1996, ha progressivamente consolidato il proprio target di visitatori specializzati, allargandosi anche ai “non addetti ai lavori”. Quest’anno la biennale ha toccato l’Italia, interessando in particolare la regione del Trentino Alto Adige con quattro sedi (Bolzano, Fortezza, Rovereto e Trento). Da buon pseudo-cultore quale sono, non ho perso l’occasione per una capatina: Bolzano mi ha lasciato un ottimo ricordo (meraviglioso lo spazio espositivo da archeologia industriale, non meno i lavori presenti, legati da una solida coerenza tematico-curatoriale), positiva pure Rovereto (nonostante risenta un po’ dell’impostazione da “mercatone dell’arte” – con una grande quantità di lavori eterogenei, non sempre meritevoli d’attenzione – tipica delle biennali d’ogni dove), senza voto Fortezza, non avendo avuto modo di passare da là (anche se una persona di cui mi fido ha dichiarato a margine della propria visita alla sede che “il momento culturalmente più stimolante è stato lo strudel mangiato al baretto del posto”). Fin qua, tutto sommato, un giudizio più che positivo. A far crollare quanto di buono messo in campo da artisti e curatori, la sede di Trento, presso l’ex palazzo delle poste, a proposito del quale ho coniato un termine, “antifruibile”. E ś, perché allestire un percorso espositivo del genere è un suicidio, sotto più punti di vista. Mi spiego: all’interno dell’articolatissima struttura (almeno un’ottantina di stanze separate) hanno trovato spazio soprattutto video e, fin qua, nulla di male. Il problema nasce nel momento in cui, com’è normale – anzi doveroso – che sia, un qualsiasi visitatore decida di vedersi tutte le opere esposte: ma come si pụ concepire la presenza contemporanea di più di 50, forse 60, video dalla durata media di 10 minuti l’uno? Ho fatto un rapido calcolo: una visita media, e nemmeno integrale, visto che ho sottratto tutte le opere pittoriche e scultoree (che necessitano comunque di un loro “tempo minimo di contemplazione”) durerebbe non meno di 8 ore. Praticamente tre volte il tratto Roma-Firenze (andata e ritorno, sia chiaro), un volo solo andata per New York, una giornata lavorativa di un operaio. Non contesto tanto la qualità dei video (ne ho visti solo alcuni, peraltro non indimenticabili), quanto la possibilità di poterli vedere tutti e per intero (richiesta, fino a prova contraria, legittima). Ammetto che questa scelta dei curatori ha suscitato in me un po' d'irritazione; e non solo per il fatto che, in linea generale, un’esposizione – anche se biennale – per esser davvero “grande” non deve includere a tutti i costi un numero elevato di opere, quanto perché credo che un visitatore medio coś venga respinto. Senza scomodare Hanna Arendt e i suoi illuminanti pensieri sull’“ozio impegnato” (già negli anni ’60 denunciava ormai che “…il tempo libero non serve più per il perfezionamento di sé o l'acquisizione di un posto migliore nella società, benś per aumentare sempre di più i consumi e i divertimenti…”), mi chiedo se sia davvero possibile dedicare coś tanto tempo alla visione di una mostra, anche partendo con le migliori intenzioni. Ripeto, andando in questa direzione, il rischio di allontanare persone dall’arte (in particolare dalla contemporanea, già messa alla berlina dalle recenti uscite del ministro della cultura (cultura?) Bondi che dice di “far finta di capire alle inaugurazioni delle mostre”) è davvero alto. “Attenzione: la percezione richiede impegno”, recitava il titolo del padiglione spagnolo alla Biennale di Venezia 2005: prometto che metteṛ sempre il mio impegno a disposizione della percezione, ma non crediate che possa resistere sotto sforzo coś a lungo.

Saverio Verini

 

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