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INTERVISTA | Sottobosco

Il sottobosco viene solitamente definito come quella parte dell'ambiente boschivo che si sviluppa all'ombra degli alberi ad alto fusto, in situazione di scarsa illuminazione ed elevata umidità. Una dimensione quindi ‘sommersa’ ma profondamente attiva e prolifica, all’interno della quale coabitano entità eterogenee tra loro interconnesse.
Una metafora convincente per racchiudere il concept che ruota intorno a Sottobosco, progetto nato nel 2009 come piattaforma indipendente per la progettazione culturale. Un contenitore aperto e flessibile di collaborazioni ed esperienze, nel segno di un’autorialità condivisa che si domanda (e ci domanda) se sia possibile allargare e rivedere il concetto di produzione culturale, muovendosi tra realtà indipendenti e istituzionali.

Dopo oltre tre anni di attività e numerosi progetti realizzati (per avere un’idea, andatevi a vedere il website), Sottobosco ha da poco inaugurato la sua nuova sede a Venezia Mestre recuperando uno stabile in disuso.

Raggiunto via mail, il collettivo ha risposto ad alcune domande…


Il team di Sottobosco

Valentina Fiore | Avete da poco inaugurato la vostra nuova sede a Venezia Mestre, dopo un’approfondita mappatura del territorio e un metodo di finanziamento alternativo come il crowfunding. Qual è stato il percorso che vi ha portato alla scelta di questo spazio, gli ostacoli che avete incontrato e la risposta che avete avuto e state avendo dalla comunità locale?

Sottobosco | Se ripensiamo adesso al percorso che ci ha portato fin qui non possiamo che essere soddisfatti. Dopo diversi pomeriggi passati a fotografare case sfitte e saracinesche abbassate sulla strada, dopo le varie conversazioni con i proprietari delle case vicine a quelle che avevamo individuato, ci siamo imbattuti in questo appartamento al primo piano di un palazzo storico di via Piave. Il cerchio si è chiuso proprio quando, appoggiando la mano sul ferro freddo ed arrugginito della porta sbarrata da ormai 5 anni, abbiamo capito che si, si poteva fare. A questo punto ci siamo messi alla ricerca dei proprietari ai quali abbiamo proposto un comodato d’uso gratuito in cambio dei lavori di ristrutturazione, una proposta più che vantaggiosa viste le condizioni in cui la casa si trovava. C’erano sicuramente dei miti da sfatare e le difficoltà riguardavano più che altro il fatto che non avevamo mai lavorato a un progetto simile, né potevano servirci da riferimento altre esperienze come le occupazioni o i progetti di autocostruzione, sebbene è da lì che arriva l’ispirazione. La piattaforma di crowfunding Produzioni dal Basso ci ha permesso di chiedere formalmente ai nostri sostenitori di fare una donazione per finanziare il progetto, questi fondi insieme ad un significativo contributo da parte di Sottobosco, anche in termini di forza lavoro gratuita, ci ha permesso di portare a compimento i lavori. Per il resto non abbiamo incontrato grossi ostacoli, o forse non ce ne siamo curati credendo fermamente in quello che ci stava succedendo. Oggi con i nostri vicini abbiamo un rapporto di cordialità: per l’inaugurazione ci hanno mandano fiori a nome di tutto il condominio, noi li aiutiamo nelle cose pratiche e cerchiamo di essere presenti nelle situazioni critiche. Inizialmente ci siamo scontrati con la paura e la diffidenza di chi, spaventato dalla campagna negativa fatta al quartiere, temeva che condividere l’ingresso e il passaggio con una sedicente associazione culturale significasse perdere il controllo e vedere invaso il proprio condominio. Attualmente sembra che molti siano convinti che la nostra presenza porterà sicuramente dei vantaggi in termini di qualità della vita, e noi faremo di tutto per spendere la nostra progettualità e il nostro lavoro per migliorare gli spazi che viviamo.


Un'immagine dell'esterno dello spazio di Sottobosco, quartiere Piave, Mestre (VE)

V. F. | Sottobosco è, come voi stessi avete affermato, «un’idea che chiede e che offre ospitalità; un progetto sperimentale senza centro, aperto alle collaborazioni e incentrato su una pratica collettiva e co-autoriale». È difficile conciliare questa dimensione rizomatica con un approccio più community specific, quello che vi siete prefissi con l’apertura della nuova sede?

S. | Per noi non c'è tanta opposizione tra una dimensione rizomatica e un approccio specifico  alle comunità: una comunità è forse l'esempio di rizoma più vicino alla vita di tutti i giorni. È quindi un sistema complesso dove spesso anche i pregiudizi e i limiti si stabiliscono e si propagano in modo rizomatico. Noi sentiamo la necessità di introdurre all'interno di una comunità concetti positivi e buone pratiche per abitare la città pensandola come una scrivania, un tavolo di lavoro. Conferire ai quartieri, agli edifici, alle piazze e alle strade un valore d'uso comune. Prendere confidenza con la città, usarla, magari anche consumarla affinché si rinnovi. In una comunità, come può essere per esempio un quartiere, dal punto di vista dell'interazione, prevalgono obiettivi condivisi e solidarietà. Questo significa che le persone possono scambiarsi e condividere non solo paure, pregiudizi e intolleranze, ma sopratutto capacità, interessi, dubbi e buone pratiche; servono solo dei catalizzatori. Molte realtà contribuiscono a questa visione, ad esempio: i gruppi di acquisto solidale migliorano la qualità dell'alimentazione in città e incidono positivamente sul sistema produttivo, favorendo la distribuzione di prodotti di alta qualità alimentare provenienti da aziende locali. Le aziende che si dedicano alla produzione integrata riescono a distribuire i loro prodotti e i cittadini mangiano più sano. Un altro esempio potrebbe essere la banca del tempo, dove i cittadini mettono a disposizione il loro tempo e le loro capacità creando una rete solidale di servizi gratuiti tra i cittadini. Tutto questo è bello! Con la nostra nuova sede ci interessa sopratutto abitare la città partendo da una buona pratica: ristrutturare un appartamento abbandonato restituendolo al quartiere come spazio comune. Ora la relazione con il quartiere e la comunità ha bisogno di crescere e rafforzarsi e per questo c'è bisogno di tempo. Quello che portiamo nel quartiere è la nostra ricerca sul rapporto che può esserci tra arte e vita di tutti i giorni, una pratica di avvicinamento molto delicata, perché si tratta di preservare il carattere complesso e di pensiero alto che le buone pratiche artistiche hanno, senza alimentare la distanza che questa stessa specificità dell'arte tende a creare. Non è una mediazione, è essa stessa una pratica sulla soglia, si tratta di lavorare direttamente sulla creazione di dispositivi che potenziano il pensiero della comunità creando possibilità reali di conoscenza e di confronto. Non è tanto la logica del “fare un passo indietro per capire” piuttosto quella del 'vedere con i propri occhi', di toccare con mano.


Sottobosco, archivio artisti. Foto di Nicola Nunziata

V. F. | Il nucleo principale del collettivo è formato da un curatore, due artisti, un antropologo, e un progettista della comunicazione: come confluiscono tutti questi diversi background in un’autorialità condivisa?

S. | La condivisione dei saperi e delle conoscenze è la forza e l'obiettivo che caratterizza il nostro lavoro. Questa modalità ci permette di ampliare le competenze personali sviluppandole in maniera omnidirezionale nell'ottica di una cooperazione multitasking. Le diverse specializzazioni personali contribuiscono ad una completa collaborazione nei processi di progettazione e diventano il mezzo attraverso il quale poter gestire progetti anche complessi in tutti i molteplici aspetti. Quest'organizzazione delle risorse si è sviluppata in maniera autonoma (coerentemente con l'idea di partenza del progetto di evolversi ed 'imparare facendo') e si rivela come il risultato naturale del Sottobosco's share supreme. Spesso il proprio background si configura come un filtro attraverso il quale assimilare e rielaborare il proprio lavoro, nell'idea di autoformarsi lavorando. Collaborare con Sottobosco significa mettere sulla scrivania le proprie capacità ed ampliarle attraverso un lavoro di condivisione che permetta di acquisire competenze nuove, al di là della propria formazione specifica. Ed è proprio il risultato del lavoro, ciò che nasce da questa condivisione, che diventa espressione di quell'autorialità condivisa dalla quale diventa difficile, se non impossibile, riuscire a individuare e scindere contributi personali e referenziali.


ShowDesk Venezia - Galleria Contemporaneo Venezia Mestre, 12 Maggio 2010


ShowDesk Roma - Reading Room #9, Nomas Foundation, Roma, 21 - 22 aprile 2011

V. F. | Prossimi progetti in cantiere?

S. | Per i prossimi mesi abbiamo in programma diversi progetti: siamo stati invitati dal CRAC, Centro di Ricerca Arte Contemporanea di Cremona, a tenere un workshop con gli studenti del Liceo Artistico “Bruno Munari” e per questa occasione abbiamo pensato a Stupido Oggetto, un progetto che prevede l’organizzazione di una mostra degli studenti che rifletta sulle potenzialità espressive dell’oggetto banale, quotidiano e di uso comune. Durante il laboratorio, attraverso il metodo learning by doing, gli studenti sperimenteranno la possibilità di produrre opere d’arte partendo dalla decostruzione e riconfigurazione delle qualità fisiche e culturali di un oggetto e cercheranno di riflettere sulla centralità dei contenuti nei processi di produzione culturale.
Altro progetto a cui abbiamo iniziato a lavorare è “Reporting via Piave”, un laboratorio partecipato di inchiesta fotografica finanziato dalla Comunità Europea, che riflette sulla possibilità di ibridare i metodi di progettazione sociale, in particolare l’approccio auto-narrativo Photo v.o.i.c.e. (voicing our individual and collective experience) con le pratiche artistiche contemporanee. Il progetto, introducendo una riflessione sul rapporto tra partecipazione pubblica e produzione visiva, accompagna i partecipanti lungo il complesso iter di produzione e organizzazione di una mostra fotografica che rifletta sulla stratificazione identitaria e sulle nuove forme di cittadinanza, concentrandosi sull’area del quartiere Piave. Ai partecipanti che prenderanno parte al progetto verrà consegnato un kit composto da una macchina fotografica e un blocchetto per appunti con i quali potranno iniziare a raccontare il quartiere attraverso il proprio sguardo, successivamente saranno invitati a partecipare a dei laboratori dedicati alle tecniche di composizione dell’immagine e alla possibilità di utilizzare in modo consapevole il mezzo fotografico. La mostra finale, che si terrà tra maggio e giugno 2012, sarà l’occasione per presentare il punto di vista e il racconto delle memorie, delle identità e dei nuovi immaginari che i cittadini della comunità locale avranno prodotto.

a cura di Valentina Fiore

 

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